MILANO – Nato nel 1930 a Genova da padre sardo (spedizioniere e poi direttore di uno scalo merci) e madre emiliana di Colorno, Franco Loi si trasferì a Milano con la famiglia nel ‘37 e fu assorbito dalla parlata lombarda e catturato dall’essenza dei ceti popolari urbani. Proprio nella città che presto fu sua, Milano, è morto il 4 gennaio assistito dalla figlia Francesca a causa degli scompensi cardiaci sopravvenuti alla cecità che lo affliggeva da anni. Dopo la guerra, Loi cominciò a lavorare come disegnatore di ceramica e poi come operaio agli appalti della ferrovia, da lì all’Ufficio pubblicità della Rinascente. Poi, ottenuto il diploma di ragioniere alle scuole serali lavorò all’Ufficio stampa della Mondadori dal 1960 al ’67 dove continuò la sua collaborazione fino al 1983.
Alla passione civile che lo vide militante del Fronte della gioventù e della Federazione giovanile comunista si legava l’amore per il teatro che nel ’64 gli procurò una collaborazione con Puecher, Bajni e Marano per uno spettacolo di satira al Piccolo e tra il ’69 e il ’70 una partecipazione a Nuova Scena. In una intervista in cui gli viene chiesto quando sia nata la sua voglia di scrivere racconta che già da bambino amava scrivere la sceneggiatura per alcuni libri per bambini e poi con un gruppo di amici suoi coetanei, metteva in scena quanto aveva scritto. Di qui si evince quanto fosse radicato l’amore per il teatro e per la scrittura. Scriveva perché doveva dar voce al suo inconscio permettendogli di esprimere ciò che la mente non aveva neppure pensato.
Sicuramente Loi è una figura culturalmente del tutto atipica nel panorama poetico italiano. Lo dimostra anche il fatto che si è avvicinato alla poesia in età piuttosto tarda, nel 1965, per una “spinta sentimentale e volontaristica”, come ha scritto: “Mi ero innamorato e mi ingegnai di dar parola alle mie effusioni passionali. Questa effervescenza amorosa mi pareva poesia”. Cominciò a scrivere in italiano, ma per un impulso che lui stesso non riusciva a definire venne fuori il milanese come “una corrente di ritmi e suoni entro cui le parole e le immagini trovavano, quasi spontaneamente, una loro collocazione”. Della poesia dice che essa sgorga in modo naturale e senza che venga comandata dal cervello e dalla propria volontà. La poesia non è una bella costruzione letteraria, ma qualcosa che viene da te stesso e ti parla. “Il mio inconscio sa più di me – aggiunge – quando vengo mosso a scrivere ascolto quel che viene da me. E’ un momento di contatto con l’Universo”. In un mese scrisse circa 120 poesie.
Considerato uno dei maggiori poeti italiani del dopoguerra, il maggiore tra quelli in dialetto milanese, si fece notare nel 1975 con la sua raccolta più celebre, “Strolegh”, pubblicato da Einaudi con prefazione di Franco Fortini. Tra le altre opere, tre anni dopo, la raccolta “Teater”, sempre edita da Einaudi, così come “L’aria de la memoria”, che raccoglie tutte le poesie scritte tra il 1973 e il 2002. Tante poi le opere scritte in dialetto milanese, tra cui “Luenn”, “Liber”, “Umber”, “El vent”, “Isman”, “Aquabella”, “Pomo del pomo”. Una pronuncia autentica del vivere: una lingua senza veli né menzogne, i quartieri di una vecchia Milano “cun l’aria sensa temp”, l’allegria, la rabbia, la politica e gli errori, i morti che la storia ignora, il fruscio del tempo che passa, l’amore, di cui si può scrivere anche a tarda età: “Che lüs di öcc nel fâss carna l’amur!” (“Che luce negli occhi nel farsi carne l’amore!”): questo era Franco Loi.
Non solo poeta ma anche attivista, saggista, uomo del suo tempo, lungimirante e pieno di energia. Nel dopoguerra era stato fra gli animatori della Casa della Cultura a Milano, esperienza che ricordava come fondamentale. Il tentativo di svegliare le coscienze: “Andavamo quasi casa per casa, per sollecitare, sensibilizzare, per convincere che l’ignoranza rende deboli e subalterni. Non so se questo sogno sia fallito, ma mi pare che oggi la politica, l’economia e perfino la tecnologia non facciano che accentuare la frattura tra masse e cultura”. Con le opere in versi vinse il Premio Bonfiglio, il premio Nonino, il Librex Montale e il Brancati 2008. Il suo stile era all’insegna della libertà espressiva assoluta daal grottesco al sarcastico al satirico. La sua attività letteraria fu ampiamente apprezzata anche dalle istituzioni che gli attribuirono numerosi riconoscimenti come l’Ambrogino d’oro da parte del Comune, la Medaglia d’oro dalla Provincia e il Sigillo Longobardo dalla Regione.
Fa bene ritrovare le sue parole in una stagione così cupa: “Proprio nei momenti di crisi – disse anni fa, in occasione di un’intervista – la cultura diventa ancora più necessaria. Essenziale. Può salvarci solo la passione per il conoscere, il desiderio di capire. Se non so chi sono e dove sono, sarò sempre schiacciato da tutto ciò che di negativo viene da fuori; sarò raggirato, ingannato, costretto a correre dietro a bandiere e speranze ridicole. Senza conoscenza e auto-coscienza si va nel buio, si cede alla grettezza, si rischia di credere che l’economia sia tutto, che siano le sue leggi a salvare o a condannare gli uomini”. E ancora: “Restare fermi non ha comunque senso, anche se per pigrizia mentale o fisica può capitare di cedere alla stanchezza e alla sfiducia. In un tempo come questo di scarse certezze non è raro sentirsi impotenti, abbandonati a sé stessi”.
Alla domanda ‘Che cosa può tirarci fuori dal peggio?’, rispose: “Niente che venga dall’esterno. Solo le nostre stesse forze. La nostra capacità di prendere coscienza, di non giustificare sempre i mezzi della cattiva politica. Di aiutare anche gli altri a prendere coscienza. Ho fiducia nell’uomo, nel fatto che cento persone migliori sommate ad altre cento e poi ancora cento possono produrre speranza e cambiamento. Speranza e cambiamento sono possibili se sappiamo ciò che vogliamo, se lo difendiamo giorno per giorno assumendoci la responsabilità delle nostre scelte e dei nostri comportamenti”. Gli è stato chiesto di spiegare come possa contribuire uno che scrive. Rispose con semplicità ed efficacia, come era nel suo stile: “Facendo ciò che gli spetta, ciò che deve anzitutto come cittadino. Con il suo strumento, che è la parola, può poi indurre negli altri il dubbio, può spingere alla riflessione, può aprire un dialogo su ciò che può farci partecipare al vibrare dell’universo intero, sul mistero dell’essere al mondo”.
Fermezza, delicatezza, convinzioni salde, un dire lieve e gentile, questo era Franco Loi. Considerato uno dei maggiori poeti italiani del dopoguerra, il maggiore tra quelli in dialetto. “Di lui – scrive il sindaco Beppe Sala – Milano ricorderà la sua straordinaria lirica colma di realismo, capace di mescolare diversi elementi ed influenze». In tanti, oggi, lo ricordano sui social. Tra le composizioni più citate, “Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle” da ‘Lunn’ e ‘Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient’ da ‘Liber’.
Margherita Bonfilio
SÈM POCA ROBA, DIU, SÈM SQUASI NIENT
Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient,
forsi memoria sèm, un buff de l’aria,
umbría di òmm che passa, i noster gent,
forsi ‘l record d’una quaj vita spersa,
un tron che de luntan el ghe reciàma,
la furma che sarà d’un’altra gent…
Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria,
e quanta vita se porta el vent!
Andèm sensa savè, cantand i gloria,
e a nüm de quèl che serum resta nient.
SIAMO POCA ROBA, DIO, SIAMO QUASI NIENTE
Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,
forse memoria siamo, un soffio d’aria,
ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,
forse il ricordo d’una qualche vita perduta,
un tuono che da lontano ci richiama,
la forma che sarà di altra progenie…
Ma come facciamo pietà, quanto dolore,
e quanta vita se la porta il vento!
Andiamo senza sapere, cantando gli inni,
e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.
Un bellissimo articolo e interessante la scelta della poesia. Peccato che, spesso, ci si ricordi dei grandi dopo la morte. Un personaggio ricco e interessante che non conoscevo.