PERUGIA – Armati di fucili da caccia, di forconi, falci, roncole, irruppero prima in Città di Castello (il 16 aprile 1798) e pochi giorni dopo, il 22 aprile, seconda domenica dopo Pasqua, di pomeriggio, appena finiti i riti del Vespro, insorsero a Castel Rigone. Sempre al grido di ‘’Viva Maria!’’ e di ‘’Viva il Papa’’. Fu, almeno all’inizio, un moto popolare, spontaneo, quello che ebbe origine dalle campagne tosco-umbre dove contadini e artigiani, coi vestiti lisi e laceri ed i crampi della fame allo stomaco, si sollevarono, pieni di rabbia, contro lo “straniero” (l’invasore francese, sceso in Italia nel 1796) e contro i giacobini nostrani collaboranti e che visse il suo momento di maggior fulgore, alcuni mesi più tardi, con l’insurrezione di Arezzo e della Toscana.
E’ un periodo storico non particolarmente approfondito e noto – sebbene non manchino gli studi sul tema, tra i quali ‘’I torbidi del Trasimeno’’ di Claudia Minciotti Tsoukas – anche se coinvolse una parte ampia della regione, a occidente ed a nord, in particolare, da Orvieto fino al Trasimeno ed all’Alto Tevere e, con minor vigore, all’Eugubino. La rivoluzione francese aveva acceso, anche in Italia, speranze di libertà, di laicità e di modernità tra gli intellettuali e le classi abbienti, ma aveva fortemente spaventato ed allarmato i contadini, gli artigiani, gli strati più poveri, visceralmente legati alle tradizioni ataviche e alla religione e sottoposti, più di altri settori sociali, ad imposizioni sgradite quando non a soprusi e ruberie.
Le “novità” apportate dagli ‘’stranieri’’, nella vita pubblica e privata, che volevano esportare (anche allora…) sulla punta delle baionette, la democrazia giacobina nata e sviluppatasi in Francia, avevano sbigottito e stravolto gli animi più semplici, contrariati anche dalla chiamata alle armi dei cittadini idonei che toglieva braccia dai campi e gonfi di malumore e di rancore, se non di odio vero e proprio, per la penuria dei generi alimentari e, in particolare, del sale. Anche al sud della penisola, d’altronde, il popolo si oppose in armi all’arrivo dei francesi e formò, schierandosi dalla parte dei Borboni, l’Esercito della Santa Fede, da cui l’etichetta di “Sanfedisti”, attribuita agli insorti. D’altro canto l’esercito francese si comportò, spesso se non sempre, da rapinatore di ricchezze e di opere d’arte. Le “spoliazioni napoleoniche” (furti mascherati con la giustificazione di indennizzi di guerra) furono perpetrate nel volgere di una dozzina d’anni fino al 1814 e riguardarono arti pittoriche, scultoree, beni archeologici, archivistici e librari, collezioni di gemme e pietre dure, numismatiche, naturali, mineralogiche e botaniche.
Non mancarono distruzioni di oggetti d’arte o preziosi, provenienti da chiese, monasteri o di proprietà pubblica, fusi per recuperare metalli quali oro e argento. Paul Wescher, uno storico, sostiene che le spoliazioni dell’epoca hanno rappresentato “il più grande spostamento di opere d’arte della storia”, con danni ingenti e non quantificabili ” in quanto risulta difficile stabilire con esattezza quante opere d’arte di valore unico andarono distrutte o disperse in quei giorni”. Questa la cornice di fondo. Nel febbraio del 1796 l’immagine di ceramica invetriata, annerita dal tempo, della Madonna del Conforto, nell’Aretino, si sbiancò all’improvviso davanti ai fedeli e questo episodio, che la gente interpretò come un miracolo, un segno del cielo, si trasformò in uno dei prodromi della ribellione. Un sintomo, un’avvisaglia che qualcosa di significativo stava maturando, proprio nel momento in cui la Prima Repubblica francese affidava a Napoleone Bonaparte il comando della Campagna d‘Italia. Nel febbraio del 1798 i territori umbri, allora parte integrante dello Stato Pontificio, vengono invasi dai rivoluzionari francesi e dai loro alleati giacobini, che già avevano militarmente occupato le regioni del nord.
I primi a passare dai mugugni ai fatti furono gli alto tiberini: i tifernati, con l’aiuto attivo dei vicini di Borgo San Sepolcro e degli aretini (sudditi del Granducato di Toscana), invadono armi in pugno Città di Castello e sradicano l’albero della libertà, simbolo dei tempi nuovi, della rivoluzione, piantato per la prima volta a Parigi nel 1790 (in pratica un palo addobbato con bandiere e con in cima collocato il berretto frigio, copricapo rosso di forma conica). Centocinquanta francesi, tra ufficiali e soldati, quel giorno, vengono passati per le armi dai vincitori. La lezione del Terrore rivoluzionario aveva conquistato proseliti pure da noi. A capo degli insorti figurano Luigi Brunetti di Gubbio, detto Rabbiaccia, Stanislao Berioli di Castel Rigone e tali Cappel Bianco e Cappel Verde, probabilmente briganti o comunque contrabbandieri. Subito da Perugia vengono trasferite truppe per liberare la piazza tifernate e sedare i sanguinosi tumulti. Operazione che si realizza (non senza eccidi e feroci, crudeli rappresaglie), sebbene i rivoltosi, scacciati dalla città, si disperdano e stazionino nelle campagne circostanti, votati ad azioni di guerriglia, mordi e fuggi.
Mentre le autorità tengono sotto osservazione costante i fatti orribili di Città di Castello, ritenuti estremamente pericolosi, si assiste – almeno nei primi giorni – alla sottovalutazione della ribellione di Castel Rigone, allargatasi poi a Preggio e a Lisciano Niccone. Su queste colline tutto prende avvio da una satira di un qualche buontempone, conoscitore del latino (soltanto i sacerdoti, e non tutti in particolare in campagna, ed i nobili e ricchi masticano, a quei tempi, la lingua degli antichi) con la scritta ‘’Non potest arbor mala’’ (l’albero – beninteso quello giacobino – non produce frutti) e col rogo dell’albero, innalzato in mezzo al borgo. Un carico di sale, richiesto dalla popolazione attraverso la municipalità, ma che non arriva e la soppressione del diritto di questua per la tradizionale festa in nome di Sant’Antonio, della Madonna e delle anime del Purgatorio (al termine della quale, da secoli, si fanno esplodere mortaretti e che finisce in gloria con una mangiata pantagruelica cui partecipa l’intera comunità) eccitano ed esasperano gli animi degli abitanti di Castel Rigone, dove vivono tra paese e campagne, diverse centinaia di persone.
Il più acceso fautore della ribellione si dimostra tale Antonio Bruciapelo, che forse quel giorno aveva alzato un po’ troppo il gomito… Minacce, cappelli con la coccarda stracciati, qualche bastonatura contro i sostenitori della nuova ideologia, concretizzano i primi atti della rivolta. La ribellione si diffonde quasi subito alla vicina Magione, da cui i giacobini vengono cacciati dal movimento libero, schietto, istintivo, guidato da Michele Centamori di Villa Antria e da una donna, Anna Allegri, di cui purtroppo non si conoscono altre notizie (al contrario dell’eroina di Arezzo, che mesi più tardi, risulterà Sandrina, Alessandra Cini – moglie di un ex dragone, Lorenzo Mari -, la quale entrerà a cavallo alla testa dell’esercito controrivoluzionario, con austriaci e russi, in Firenze). Magione, centro più popoloso di quell’area e strategicamente ritenuto importante, diviene di fatto la piccola capitale dei rivoltosi. Questi ultimi, alla ricerca di un capo, affidano il comando a Tommaso detto Broncolo (soprannominato così perché mancava di quattro dita ad una mano), un ex doganiere, trasformatosi in contrabbandiere ed in brigante. Latitante per lungo tempo (nel territorio di Passignano e nelle zone della contea dei Sorbello, tra Umbertide e Città di Castello) il ricercato dalla giustizia era sempre riuscito a sfuggire agli sbirri papalini, per cui si era creata, tra le campagne ed i paesi del territorio, un’aura di invincibilità intorno alla sua figura. Gli insorti gli affibbiano sul campo il titolo di ‘’Generalissimo’’.
È lui a formare uno stato maggiore e ad installare il quartier generale a Magione oltre ad organizzare presidi a Castel Rigone, Preggio, Passignano (dove viene, anche qui, bruciato l’odiato albero giacobino nel corso di una gran festa con distribuzione di vino a volontà e di prosciutto, tagliato – precisa un cronista: ‘’con grande maestria’’ – dallo stesso Broncolo). L’insorgenza dilaga, inarrestabile, sino a Panicale, dove a capo dei ribelli si pone Giacinto Venturelli. Il movimento lealista si espande a tutta la diocesi di Perugia: dal lago sino ai confini con i vescovadi di Assisi e, a sud, di Todi e di Orvieto. Molti aderiscono spontaneamente alla ribellione, i titubanti vengono ‘’convinti’’ e arruolati con la violenza, le intimidazioni, perfino con la minaccia delle fucilazioni, come dispongono gli ordini scritti emanati da Broncolo (che contava, quale segretario, sul parroco di Zocco, don Vincenzo Agostini). L’armata degli insorti, sebbene non riesca a stringere contatti solidi e operativi con i rivoltosi di Città di Castello e di Gubbio, diventa sempre più ambiziosa e aggressiva. E siccome francesi e i volontari giacobini appaiono preoccupati più dell’emergenza di Città di Castello, dove è stato copiosamente versato sangue francese, che dei moti del Lago Trasimeno, il Generalissimo sfrutta la situazione di disattenzione, di debolezza degli avversari per portare l’assedio addirittura a Perugia. I ribelli insediano il loro stato maggiore a Corciano e al Colle del Cardinale e da quella base operativa lanciano sortite in direzione di Porta San Angelo, il rione di Perugia che si allunga sino al Trasimeno, dove più vibrante e accesa monta la rabbia contro i francesi, i giacobini, i massoni. L’accerchiamento, sempre più stretto attorno alla città, impedisce i rifornimenti di acqua, di legna, di viveri.
Anche il contado di Porta Sole, a cui fanno riferimento gli abitanti della valle del Tevere (Ponte Felcino, Ponte Pattoli, Ponte Valleceppi, Ponte San Giovanni, territori in cui pullulano ed operano i molini delle farine e dell’olio) cadono sotto il controllo dei controrivoluzionari. Il blocco provoca notevoli disagi e acute sofferenze tra i cittadini del capoluogo. Il 28 aprile, in aggiunta, viene assaltata dagli insorgenti (sprezzantemente indicati come “pagnottanti” dai giacobini) Cenerente: finiscono svaligiati i palazzi e le ville dei ricchi che parteggiano per lo “straniero” (i Narboni e i Bartoccini). I francesi rispondono con vigore respingendo, con i cannoni e con i loro moschetti, gli assalitori e mettendo a sacco, indiscriminatamente, San Marco e Capo Cavallo, perché qui i soldati ribelli si erano installati per le operazioni d’assedio. I vincitori giacobini rientrano in Perugia con la testa di un colono, sorpreso nei campi e ucciso senza alcuna ragione, infilzata sulla punta di una sciabola. Tornano all’attacco gli insorgenti che, con un cannone, bombardano Porta Sant’Angelo. Fuori le mura del rione si accende un crepitante scontro a fuoco (i fucili del tempo funzionavano tutti ad avancarica), durato una mezzora e nel corso del quale le truppe francesi e i volontari giacobini costringono al ripiegamento gli insorti. Per un agguato teso da altre bande di lealisti ai francesi, una scaramuccia, con scambio di fucilate, si consuma anche a Pian di Massiano, dove oggi si trovano gli impianti sportivi. Ponte D’Oddi e San Marco subiscono la ritorsione francese di una nuova devastazione, con chiese profanate e stragi di inermi. Il Generalissimo (che non aveva partecipato al combattimento) si attesta in Magione, dove le difese vengono rinforzate alla bell’e meglio. Ma di fronte ad un esercito regolare di soldati veterani, bene armati e con alla testa ufficiali di carriera, scarsa anche se coraggiosa resistenza, possono opporre i rivoltosi. Il 3 maggio la cittadina viene espugnata con un poderoso assalto delle truppe “straniere”.
E, subito dopo, anche il presidio di Castel Rigone cade. Mentre sul territorio riconquistato i francesi e i volontari giacobini, scatenano una repressione feroce, senza pietà, da “terra bruciata” (eccidi in Corciano e in Magione, fucilazioni di ribelli al Frontone – tra i quali i difensori magionesi Giuseppe Cionchetta, Salvatore Sugarone, Giuseppe Battaglini, Domenico Castellani detto Macchione -, azioni sacrileghe nelle chiese, con pissidi e ostie consacrate gettate a terra e calpestate), il 5 maggio i ‘’Viva Maria!’’ dell’Alto Tevere, ai quali si è accodato con i suoi pure Broncolo, sganciatosi in tempo prima della caduta di Magione, attaccano in 8.000 (così riportano le fonti) Città di Castello e la riconquistano con la forza delle armi strappandola ai francesi e ai giacobini locali. Tra le vittime anche il senatore della Repubblica Romana, Giulio Bufalini, della aristocratica famiglia altotiberina. Inviato da Roma nella città natia con pieni poteri a sostegno dei soldati Cisalpini della legione Bresciana, viene catturato e ucciso, sul posto, a fucilate (il nobile, convinto assertore degli ideali illuministi, pare avesse “donato” proprio in quei giorni tumultuosi, al generale Giuseppe Lechi, comandante napoleonico, lo “Sposalizio della Vergine”, esposto nella chiesa di San Francesco da quasi tre secoli, e dipinto da Raffaello; la tela venne poi ceduta ad un antiquario milanese e infine acquistata dalla Pinacoteca di Brera). Spietate, truci vendette si consumano in quelle ore, come sempre avviene nelle guerre civili. Nel frattempo, tuttavia, sopraggiungono i rinforzi francesi da Ancona (2.000 soldati), al comando del generale La Vallette. I rivoltosi si ritirano, portandosi dietro qualche cannone, verso il Trasimeno.
Chi viene colto con le armi in pugno, non ha scampo: in diciotto vengono catturati, trascinati a Perugia e fucilati, dal plotone di esecuzione, al Frontone. Tra i condannati a morte anche il prete don Raffaele Cerboni di Castel Rigone e Luigi Brunetti, detto Rabbiaccia di Gubbio. Il La Vallette si comporta, nella città riconquistata, come un volgare lanzichenecco, rubando e depredando senza alcuna remora, tanto da essere, poco dopo, processato e degradato dagli stessi francesi. Il movimento, pure battuto sul campo, non si spegne. La ribellione cova, per qualche mese, sotto la cenere. Il 6 maggio 1799, al suono delle campane, esplode la sollevazione ad Arezzo. Riappaiono gli schioppi, i forconi, le roncole. L’albero della libertà, fortemente detestato dai lealisti, viene abbattuto a colpi d’ascia. Gli austriaci scendono in campo al fianco degli insorti con truppe austro-russe al comando di Karl Schneider von Arno e persino il diplomatico inglese alla corte del duca di Firenze, lord William Frederic Wyndham (un allievo di Horace Nelson), si pone al servizio della controrivoluzione. Trentamila uomini, alla testa dei quali, innalzando una croce di sughero, cammina uno zoccolante, fra’ Bortolo, si abbattono su Siena il 28 giugno (dove vengono massacrati anche 13 ebrei) e su Firenze il 7 luglio, mentre in Maremma i rivoltosi, coi fratelli Curzio e Marcello Inghirami in testa, costringono i francesi a precipitosa fuga. In questa fase del conflitto la guida del movimento non è più in mano a contadini e artigiani, come l’anno prima, ma alla nobiltà e al clero.
Non solo: accanto ai civili, per nulla o poco avvezzi alla guerra, ora marciano, ordinati e armati di tutto punto, contingenti austriaci e squadroni di cavalleria russi. Un esercito vero, insomma. La Suprema Deputazione di Arezzo assurge al ruolo di capitale e leader della rivolta. La Legione Polacca, alleata dei francesi e che per un periodo era stata accasermata a Perugia, viene sconfitta nella battaglia di Rigutino, nel Casentino – correva il 14 maggio – e costretta a ripiegare verso il nord Italia, non senza lasciarsi andare a cruenti e bestiali rappresaglie sulla popolazione inerme. Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1799 l’Armata austro-russo-aretina, rafforzata dagli alto tiberini e dai contadini del Trasimeno, si riversa in Perugia, entrando da una porticina all’altezza dello Sperandio, in zona Porta Sant’Angelo. La Rocca Paolina, dove è acquartierata la Guardia repubblicana, è costretta, dopo poche ore, alla capitolazione. Toscana e Umbria spazzano via gli stranieri e i giacobini (le prime località liberate sono Cospaia, Monte Santa Maria Tiberina, Citerna, San Giustino, Lisciano Niccone, Castiglione del Lago, Passignano, Castel Rigone), scacciati pure da Todi, Assisi, Foligno, Spoleto, Orvieto.
Tornano a sventolare sull’intera regione le insegne ed i vessilli Pontifici. Per pochi mesi, tuttavia. La situazione si rovescia di nuovo nel febbraio del 1800 con la Seconda Campagna d’Italia. Napoleone Bonaparte, divenuto nel frattempo, con un colpo di stato, Primo Console, vince a Marengo, grazie ad un pizzico di fortuna la coalizione nemica (Sacro romano impero, Russia, Regno di Sardegna): l’arrivo tempestivo del generale Louisiana Charles Antoine Desaix rovescia le sorti della furiosa battaglia, che si era messa malissimo per i francesi (le truppe napoleoniche erano in rotta). “Siamo scesi come un fulmine”, scrive, subito dopo, in una lettera ai familiari il Còrso, attribuendosi tutto il merito del successo, approfittando della pur gloriosa morte alla testa dei suoi, del Desaix (raggiunto al cuore, nel corso della carica vittoriosa, da una pallottola austriaca) che, fosse rimasto vivo, avrebbe potuto a buona ragione, rivendicare l’importanza decisiva, fondamentale del suo intervento e del suo ruolo nella battaglia. In centro Italia riappaiono e rialzano la cresta i filo-francesi. Arezzo, impavida, resiste, ma invano: espugnata, viene sottoposta a brutale saccheggio. L’insorgenza, stavolta, è spenta radicalmente. Ma la storia non conosce soste nel suo continuo mutamento.
Napoleone, ottenuto il titolo di imperatore, vola di vittoria in vittoria “dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno”, come canta il Manzoni. Fino a quando… Nel 1814 le battaglie di Lipsia e Waterloo, fatali alla stella dello stratega ritenuto invincibile, restituiscono agli imperi centrali ed al Papa, il potere e gli stati conquistati dal Còrso, come si decide formalmente e in maniera definitiva al Congresso di Vienna. Lo stesso Napoleone, prigioniero degli Inglesi, viene spedito in esilio nella sperduta isola di Sant’Elena, uno scoglio in mezzo all’Atlantico, dove muore (avvelenato?) pochi anni più tardi. E Tommaso, detto Broncolo? Quale destino gli hanno riservato gli eventi? Scampato al campo di battaglia, il Generalissimo pare abbia tentato di salvare la pelle cercando di “vendere” – animo da brigante – una quindicina di suoi vecchi compagni di lotta ai giacobini in cambio della propria incolumità. Ma il suo piano non va, per un qualche sconosciuto motivo, a buon fine. Viene arrestato dai francesi in località Braccio, su un colle che s’affaccia sul Trasimeno, a poca distanza da Sant’Arcangelo di Magione, processato e condannato alla galera a vita. Muore, raggiunto da un colpo di archibugio, sulla darsena di Civitavecchia, mentre tenta una disperata fuga insieme ad altri forzati. Nessun documento rimasto parla di cosa abbia riservato la sorte all’eroina di Magione, Anna Allegri, mentre l’amazzone di Arezzo, “Sandrina’’ Alessandra Cini in Mari (1770-1848), nata a Montevarchi e ribattezzata la ‘’Pulzella del Valdarno”, in analogia a Giovanna d’Arco, “pulzella d’Orleans”, sopravvive alle turbolenze ed alle guerre, e sempre molto onorata, si spegne nel suo letto a 78 anni. Fucilato da un plotone di ussari al Frontone, invece, il capo riconosciuto della rivolta di Città di Castello, Luigi Cristianissimo, il 19 agosto 1799.
Elio Clero Bertoldi
Lascia un commento