PERUGIA – I primi eroi tuderti di cui si abbia memoria sono Lucio Crista ed i suoi sei figli, tutti e sette caduti armi in pugno, nel corso della cruenta battaglia di Canne (2 agosto 216 aC), tra le più sanguinose della storia di Roma. A tramandare ai posteri il ricordo di questi ardimentosi, Tiberio Cazio Asconio Silio Italico (25 dC-101 dC), autore de Le Guerre Puniche, in 17 libri e 12mila versi. Silio Italico, avvocato di grido della sua epoca, console sotto Nerone e proconsole in Asia Minore durante la dinastia Flavia, è l’unico tra gli storici che citi l’episodio, tragico quanto glorioso, di cui si resero protagonisti i sette guerrieri tudertini, corredando l’emozionante racconto di numerosi e ricchi particolari.
La terribile battaglia fu combattuta in piena estate sulle rive dell’Aufidio (oggi Ofanto, il più importante fiume della Puglia, noto per essere stato cantato anche da Orazio). I cartaginesi di Annibale Barca – nel cui esercito militavano iberici, tra i quali i temibili frombolieri delle Baleari, i feroci galli Boi ed Insubri e i cavalieri numidi, agili e terribili sui loro frementi destrieri – risultavano in netta inferiorità numerica in confronto alle sedici legioni romane e alleate, poste sotto il comando dei consoli Gaio Terenzio Varrone e Lucio Paolo Emilio e tuttavia, in virtù delle sue strategie, il Barca riuscì ad ottenere una vittoria schiacciante tanto importante quanto indimenticabile, per opposti motivi, sia per i vinti, sia per i vincitori.
In pratica, sfruttando la temerarietà e superficialità del console Varrone – almeno secondo lo storico romano, che fu pure, tra l’altro, patrono e mecenate del mordace epigrammista Marco Valerio Marziale – il cartaginese ordinò alla sua prima linea, costituita da truppe iberiche, di ritirarsi lentamente e ordinatamente come se la pressione romana risultasse non sostenibile e, al momento opportuno, fece scattare una manovra a tenaglia, stringendo le legioni di Roma in una morsa e menando grande strage di romani e dei loro alleati italici (tra i quali vengono citati per valore i soldati di Norcia e di Todi, allora Tutere). Lucio Crista, a capo di duecento legionari, pur non essendo più nel vigore della giovinezza, chiamò a raccolta i suoi quando scorse, a poca distanza, Annibale che, dall’alto della torretta sistemata su un elefante, lanciava gli ordini al suo esercito. Pensò il maturo guerriero, che schiacciando la testa del serpente la vittoria contro l’invasore sarebbe stata ancora possibile.
Seguito dai suoi figli, Lucio si slanciò contro il possente animale che, colpito più volte, crollò al suolo. Riuscì anche il prefetto tuderte a scagliare un giavellotto contro Annibale, stretto nella sua armatura di bronzo e d’oro, ma senza procurargli danni. La risposta del cartaginese, a fianco del quale si era prontamente schierata la sua possente guardia personale, si rivelò immediata e tremenda: Lucio venne trafitto dalla lancia dell’avversario. La stessa, pare, che Crista aveva tirato contro il comandante avversario e che si era conficcata, senza altri danni, nello scudo dell’africano. I sei figli – di cui Silio Italico riporta con precisione i nomi – si gettarono nella mischia per difendere il corpo del genitore, ma Luca, il primogenito, fu raggiunto da una freccia; Volsone che si era piegato per prestare soccorso al fratello atterrato e agonizzante, fu attinto da un dardo scagliato dall’arco di Abari, fido compagno del cartaginese; Vesulo, che avanzava senza sosta, tra un nugolo di nemici, venne letteralmente decapitato da una spada cartaginese; Telesino prima e Querente subito dopo, crollarono morti sotto i colpi dei frombolieri ispanici; Perusino, l’ultimo ed il più giovane, finì – ormai rimasto solo – infilzato da un palo aguzzo e ardente brandito da un’orda di crudeli galli.
Finì dunque nel sangue l’audace tentativo dei tudertini e tuttavia a quasi trecento anni di distanza a Roma, non più repubblicana ma imperiale, ancora si ricordava – Silio Italico sembra abbia scritto la sua opera in una delle ville campane che erano state più di cento anni prima di proprietà di Marco Tullio Cicerone – il coraggioso sacrificio dei sette. Forse anche i tuderti di oggi dovrebbero celebrare i loro antichi progenitori. Magari intestando loro una via o varando una qualsiasi altra iniziativa che ne tramandi la memoria ai posteri.
Elio Clero Bertoldi
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