PERUGIA – Chi lo ha definito un amore splendido, chi una passione tragica. Abelardo (1079-1142) ed Eloisa (1097-1164) restano, comunque, i protagonisti di un trasporto, carnale prima, platonico e spirituale poi – dopo l’evirazione subita, per vendetta, dal brillante filosofo -, andato avanti per circa un trentennio. Di questa travolgente “liaison” – che suscitò scandalo non solo a Parigi ed in Francia – rimane la testimonianza resa da Abelardo nella “Historia calamitatum mearum” (Storia delle mie disgrazie) e la corrispondenza tra i due (7 lettere di Abelardo, 4 di Eloisa) talvolta in forme ed in parole per il periodo audacissime, quelle di lei, soprattutto.
Abelardo era un accademico ed un chierico, dunque con la tonsura e appartenente al clero, nato in Bretagna (a Pallet) dalla mente acuta, vivace, profonda, che ebbe per maestri Roscellino prima e Guglielmo di Champaux, poi. Quest’ultimo, che in precedenza gli aveva lasciato la propria cattedra a Notre Dame, successivamente – per invidia dei successi e della fama raggiunta dall’allievo? – gli si dimostrò ferocemente ostile e nemico. L’amata definisce Abelardo “Giovane, bello, intelligente. Due cose ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia, il fascino delle tue canzoni”. Di Eloisa, parigina doc, nata nell’Île de la Cité, le cronache narrano fosse di una bellezza incomparabile e di una intelligenza pronta, briosa, perspicace. Aveva approfondito le arti liberali – grammatica, retorica, geometria, astronomia – e padroneggiava le lingue classiche (greco e latino) e l’ebraico. Proprio lo zio materno di lei, il canonico Fulberto, per arricchire ulteriormente l’istruzione della sedicenne, l’affidò agli insegnamenti di Abelardo, la mente più brillante e sagace della Parigi dell’epoca, che incantava, con i suoi ragionamenti e la sua logica stringente, non solo gli studenti, ma l’intera “intellighenzia” del tempo.
Nonostante la differenza di età (lui aveva il doppio degli anni dell’allieva, incontrata alla scuola di Sainte Généviève) la concupiscenza esplose violenta, travolgente, irrefrenabile. “Mi incendiò il cuore” – confesserà lei. Confidò il teologo: “Eloisa aveva tutto ciò che seduce gli amanti… Travolto dall’amore per Eloisa, studiai il modo per avvicinarla, così da farmela amica, ed indurla più facilmente a cedermi…”. Sfondava una porta aperta, Abelardo. Le lezioni private di filosofia, a casa di lei, si trasformarono ben presto in un “fuoco” sfrenato. Ha lasciato scritto Eloisa, per nulla ipocrita: “Furono ore, giorni, settimane, mesi di assoluta e incomparabile felicità”. E precisa ancora, senza infingimenti: “Erano più numerosi i baci che le frasi, la mano correva più spesso al seno che ai libri… Il nostro desiderio non trascurò alcun aspetto dell’amore, ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo. E quanto più eravamo inesperti in questi piaceri tanto più ardentemente ci dedicavamo ad essi senza stancarci”.
Fu in questo periodo che l’intellettuale redasse i “Carmina amatoria”, poesie leggere, giocose, che circolarono, con successo, recitati per strada e nelle taverne, tra gli studenti e che pare fossero dedicati proprio alla sua giovanissima, conturbante fiamma. Intanto, però, Fulberto aveva cominciato a sospettare la tresca e divise, in modo traumatico, i due amanti, cacciando Abelardo dall’insegnamento privato della nipote. Ma il trasporto, il sentimento, il richiamo sessuale tra i due era così intenso, forte, bruciante, che la coppia continuò – nonostante i pressanti divieti – a fequentarsi di nascosto, persino di notte. “Restavamo avvinghiati per ore – assicurava Eloisa stessa in età avanzata – come cani in calore”. Eloisa restò incinta. Abelardo pensò, allora, di rapirla portandola in Bretagna, nell’abitazione della propria famiglia. Il canonico Fulberto, alla notizia, montò su tutte le furie. Per placarlo e per riparazione, il chierico annunciò di essere pronto a sposare la fanciulla, sebbene per il ruolo ecclesiastico ricoperto, non potesse unirsi in matrimonio. I familiari di lei finirono per accettare il male minore. Anche perché, nel frattempo, Eloisa aveva dato alla luce il frutto della relazione: il piccolo Astrolabio (che significa “rapitore degli astri”).
La coppia rientrò a Parigi e celebrò le nozze in segreto. Fulberto, pure sollecitato a non divulgare la notizia per non macchiare la carriera accademica del maestro, tradì le loro aspettative: tutta Parigi venne a conoscenza degli sponsali. Allora, nel tentativo di attenuare lo scandalo montante, il filosofo convinse la moglie – prontissima a sacrificarsi – a ritirarsi in convento ad Argenteuil, ad una ventina di chilometri dalla capitale, dove la donna già era stata ospite da bambina. Appena Fulberto venne a conoscenza che sua nipote era stata condotta in monastero, si convinse che Abelardo volesse sbarazzarsi della fresca consorte. Ed ordinò ai familiari di consumare una tremenda punizione: la castrazione del maestro. Gli esecutori, un terzetto, penetrarono in piena notte nell’abitazione del filosofo, lo sorpresero a letto e lo resero eunuco. Due di loro, subito scoperti, vennero processati e condannati (alla stessa pena: l’evirazione, con l’aggiunta dell’accecamento). Fulberto, pure mandante del crudele, odioso delitto, subì soltanto la sospensione dai propri incarichi ecclesiastici.
Abelardo, punito per aver sedotto, rapito e sposato in segreto la ragazza, si allontanò dal mondo: si ritirò a vita monacale nell’abbazia benedettina di Saint Denis, alle porte di Parigi. Da qui dovette, però, allontanarsi presto sia per i contrasti con l’abate Adam, sia per le dispute intorno al suo trattato (“De unitate et trinitate divina”) che, alla fine, dovette bruciare, perché in odore di eresia. Fu costretto, persino, a trascorrere un periodo di privazione della libertà nell’abbazia di Saint Medard, nella Gironda, nel sud-ovest della Francia. “Né la tua mutilazione, né la nostra separazione fu paragonabile a quel gesto che fosti costretto a compiere con le tue stesse mani. E io – gli comunicò Eloisa, sempre devota ed a fianco dell’amato – ancora non reggo al pensiero che te, impotente, calunniato, deriso, lasci cadere tra le fiamme il frutto della tua acuta sapienza”. Anche lei aveva optato, giocoforza, per l’abito religioso, ma vergò su una delle missive inviate al marito: “Dell’amore che provavo e che provo per te, io non ero e non sono pentita”.
Una volta riacquistata la libertà di movimento, Abelardo si rifugiò, a Troyes, nell’Aube (a 160 chilometri da Parigi) e qui lo raggiunsero un gran numero di studenti – la sua fama, nel “milieu” culturale, restò sempre altissima – tanto che fu eretto, per ospitarli, un oratorio chiamato il Paràcleto (epiteto dello Spirito Santo; significa pure “il consolatore”). Morto l’abate Adam, altro nemico giurato del filosofo, Abelardo fu riammesso tra i benedettini e gli fu affidata, insieme al titolo di abate, l’abbazia di Saint Gildas de Rhuys, in Bretagna. Siccome la comunità di Argenteuil, dove Eloisa viveva, venne chiusa per questioni economiche e per contrasti col vescovo di Saint Denis, Abelardo offrì il Paràcleto a sua moglie (tale restava), innalzata al ruolo di badessa. Ma se l’abate-eunuco con l’avanzare dell’età, diradava le sue missive (col trascorrere del tempo aveva sublimato l’amore carnale in quello spirituale, altrettanto solido, forte ed assorbente), la badessa continuava a lamentarsi: “Troppo dolci sono stati i piaceri d’amore che abbiamo conosciuto insieme, perché io possa dimenticarli. Mi dilaniano l’anima. Talvolta non riesco a pregare, la nostalgia mi tormenta”. Ed ancora: “Ti ho amato di un amore sconfinato… il mio cuore non era con me, ma con te”.
Lui già condannato per i suoi scritti di teologia dal concilio di Soisson nel 1221, fu di nuovo, venti anni più tardi, accusato e processato per eresia su istanza di Bernardo di Clairvaux (più tardi San Bernardo) nel concilio di Sens. E addirittura scomunicato dal papa Innocenzo II. Grazie ad uno dei suoi migliori allievi, Piero il Venerabile, Abelardo si rappacificò, comunque, col pontefice romano. Scrisse lui stesso alla moglie: “Eloisa, sorella mia, un tempo a me cara al mondo, oggi ben più cara in Cristo”. Ma l’abate, saldo nella fede, rigoroso nei costumi (“La mia incrollabile logica mi ha reso odioso al mondo”, ammetteva) finì per la sua intransigenza anche per essere avvelenato dai suoi stessi monaci. Dovette fuggire anche da questo convento e nel corso della fuga si procurò una dolorosa frattura alla clavicola. Si spostò prima nell’abbazia di Cluny, la più celebre dell’intera Europa e poi nella più modesta “dependance” di Saint Marcel. Qui, trascorse gli ultimi giorni terreni come un anacoreta, tra preghiere, solitudine e digiuno. Si spense il 21 aprile 1142. All’età di 63 anni. Eloisa gli sopravvisse più di venti anni. E morì anche lei ultra-sessantenne.
Riposarono uno vicino all’altra per tre secoli, nella cripta del Paràcleto. Le loro ossa vennero traslate, nel 1817, nel più famoso cimitero parigino: il Pére Lachaise. Tra i grandi di Francia. Anche qui, uno accanto all’altro. Per l’eternità.
Elio Clero Bertoldi
Lascia un commento