ROMA – Ogni momento storico ha avuto il suo capro espiatorio, uno che paga per tutti. Per i Greci questo concetto era talmente importante che essi vi fondarono sopra l’invenzione del teatro dando alla tragedia il nome del “capro” (in greco tragos), che emette un canto (odè), mentre viene immolato al dio affinché questi liberi la comunità dal male. Il teatro, infatti, nacque per presentare i comportamenti nefasti degli uomini in quanto modelli negativi, quindi da non imitare. Così si compiva la tragedia, assistere alla quale serviva ad ogni cittadino per essere presente a se stesso quando si fosse trovato nelle medesime situazioni di cui era stato spettatore. Lo spettacolo era, quindi, un esercizio attraverso cui imparare ad “attivare il testimone” – come si direbbe in psicologia – che lo avrebbe trattenuto dai terribili gesti all’origine delle sciagure rappresentate dagli attori.
In questo modo i Greci venivano educati a gestire le proprie emozioni, la propria rabbia ed era questo il modo in cui la società si purificava dal male: la catarsi. Da quel momento in poi, però, i gruppi, le folle, la massa (oggi “la community” ovvero gli utenti di internet), si sono mossi un po’ “random”, a caso, creando varie figure (quasi sempre pretestuose), per scongiurare il male: prima la strega e l’eretico, l’ebreo, poi il nero e l’omosessuale, l’immigrato, ma anche una intera categoria di persone. La lista è ancora lunga e chi più ne ha più ne metta. Dopo tante stragi causate dalla paura di qualcosa o di qualcuno, oggi in una gara tra televisioni, radio e internet la gogna mediatica falcidia vittime ogni giorno sostituendosi ai tribunali e ai giudici. La diffusione di notizie, anche raccontate male o distorte, in un attimo riesce a distruggere la vita e la dignità di un individuo dopodichè il danno è fatto e difficilmente diventa riparabile.
Virgilio nell’Eneide parlò della Fama (personificazione della maldicenza), come di un mostro che si ingigantiva passando di bocca in bocca. Nelle dittature o durante la Controriforma c’era la delazione: bastava anche una spia anonima per mettere nei guai un innocente e condannarlo al rogo. Oggi non si fa più neanche di nascosto: con un post pubblicato da chiunque sui social o la “rimbeccata” di un pinco pallino in cerca di notorietà in un talk show la macchina del fango si mette in moto e non si ferma se non dopo aver distrutto vite, famiglie, carriere, sogni. E’ un meccanismo che racconta bene il film “Richard Jewel” (2019, regia di Clint Eastwood), una storia vera accaduta negli anni ’80, addirittura prima dei social.
Il protagonista, un troppo zelante addetto alla sicurezza, viene preso di mira dai media a caccia di scoop e, per aver dato l’allarme prima che esplodesse una bomba durante un concerto, viene indicato come l’autore dell’attentato e di lui si pretende la condanna. La notizia della sua colpevolezza, pur in mancanza di prove e di un processo, continua a rimbalzare e fare danni per settimane. Il fatto è che l’opinione pubblica pretende sempre un responsabile e se questo non c’è lo crea. E così, nel film americano, il protagonista Richard Jewel si presta a rivestire questo ruolo perché un po’ strano, ingenuo, diverso. E’ la figura adatta per incarnare la vittima, quello che deve espiare la colpa anche se è innocente come il capro che piange prima di morire. E’ un ruolo talmente necessario alla società che diventa addirittura il mestiere (ma questa volta fa ridere), di Benjamin Malaussene, il personaggio di molti romanzi di Daniel Pennac.
Quanto la cosiddetta “gente ( gli “utenti” di internet), sia influenzabile e anche capace di influenzare lo aveva già raccontato Manzoni, sempre diffidente nei confronti della folla – oggi potremmo identificarla con i social – dietro cui sono soliti confondersi la responsabilità individuale e il coraggio. Nel suo saggio “Storia della colonna infame” lo scrittore parla della condanna a morte cui i giudici furono costretti nei confronti di due innocenti considerati comunemente come gli untori che avevano diffuso la peste. E oggi tutti sappiamo che la figura dell’untore non è mai esistita, come non sono mai esistite le streghe, se escludiamo quelle delle fiabe.
Perché il problema è sempre quello: che in ogni gruppo per ristabilire l’equilibrio è necessario individuare chi possa essere identificato con il problema. Nella famiglia si chiama “pecora nera”, a scuola è la vittima dei bulli, sul lavoro è il collega mobbizzato. In ogni caso l’origine è nella mancanza di consapevolezza, nella scelta di nascondersi dietro il mucchio e non prendersi responsabilità personali, nella rabbia che ha bisogno di uno sfogo.
Sono tutti sintomi di una società sempre più a disagio e incapace di “attivare il testimone” che gli consiglierebbe di contare fino a dieci prima di esprimere quei giudizi che ledono la dignità umana e rendono fragile la democrazia. E questa responsabilità è di ogni individuo, anche di chi si nasconde nel grande numero dei cosiddetti “utenti” quando scrive il suo commento ad una notizia di cui non conosce perfettamente i termini.
Gloria Zarletti
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