PALERMO – Un’avvertenza preliminare: il libro Fine pena: ora (Sellerio, Palermo, 2015, €14) scritto dall’ex magistrato ed ex senatore della Repubblica italiana Elvio Fassone, è coinvolgente e illuminante, ma anche spiazzante e impegnativo. Non tanto per la struttura – 210 pagine composte da 55 capitoletti, brevi e avvincenti, più una sintetica, utile e interessante appendice finale – quanto per il contenuto: il testo infatti permette di entrare nell’universo oscuro del carcere, in quanto racconta la storia di un ergastolano, Salvatore, attraverso la corrispondenza epistolare intercorsa tra lui e l’autore del libro.
Per capire la genesi del lungo e inusuale carteggio – “Ventisei anni sono un tempo enorme. Nemmeno tra due amanti è pensabile uno scambio di lettere così lungo”, ammette l’autore – il testo va collocato innanzitutto nel contesto in cui nasce: il maxiprocesso celebrato nel 1985 in Corte d’Assise a Torino alla mafia catanese. Presieduto proprio dal giudice Fassone, il processo vide alla sbarra 242 imputati, alcuni a piede libero, un centinaio detenuti. Tra essi Salvatore, un focoso ‘picciotto’ catanese di 27 anni, autore di delitti violenti ed efferati: “magro e asciutto, un fascio di muscoli e di nervi”, soprannominato ‘gatto selvatico’ per la sua straordinaria agilità; un ragazzo cresciuto nel quartiere più malfamato di Catania, amante dei cavalli, che faceva le impennate con la moto. Uno a cui, quando non aveva neppure 18 anni, avevano ammazzato il fratello Carmelo, del quale Salvatore prende il posto, nella criminalità organizzata. A conclusione del processo, dopo quasi due anni di dibattimento, Salvatore viene condannato all’ergastolo.
Il giudice Fassone, che ha già avuto occasione di rapportarsi con l’umanità ruvida e tormentata di Salvatore – «Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania? Siamo maledetti: o la tomba o la galera» – gli invia d’impulso una lettera con un libro, “Siddharta”. Spera che l’ergastolano lo legga sino alla fine, quando Herman Hesse fa dire al protagonista “Mai un uomo o un atto è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore»”. Salvatore, sorpreso dal gesto del magistrato, sebbene a fatica, legge il libro. E gli risponde.
Così, attraverso frammenti della toccante corrispondenza, chi legge penetra nel “buco nero dell’eternità carceraria” inflitta a Salvatore e viene a conoscenza di alcuni momenti della dolorosa vicenda esistenziale dell’ergastolano: come quello in cui, al primo breve permesso di uscita, dopo vent’anni di carcere, la fidanzata di sempre, Rosi, gli comunica che non se la sente più di stare con lui. E Salvatore, affranto, scrive al magistrato: “Dalla vita ho avuto molto più dolori che gioie: le cose belle che ho avuto sono solo due, una è Rosi e l’altra è lei, tutto il resto è dolore, dolore dato e dolore subito“.
Nel rimandare al testo per ulteriori particolari, se ne sottolinea qui la profonda ispirazione nonviolenta: infatti, alla fermezza contro il crimine e la violenza, si unisce la compassione profonda verso chi ha imboccato una via sbagliata. Si condanna l’errore, si compatisce l’errante, come aveva invitato a fare papa Giovanni XXIII: “L’errante è sempre e anzitutto un essere umano, e conserva in ogni caso la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità”. Consapevole della casualità imperscrutabile dei destini umani, legati alla famiglia, al luogo e alla formazione ricevuta, il giudice sa che Salvatore potrebbe avere ragione quando gli dice: “Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo“.
Il testo offre allora inedite aperture di orizzonti e chiari suggerimenti operativi: invita innanzitutto a una lotta senza quartiere alla dispersione scolastica, nella convinzione dell’assoluta necessità sociale dell’opera educativa di chi – insegnanti, in primo luogo, ma anche capi scout, preti come don Pino Puglisi, volontari di ogni credo – prova ogni giorno a strappare i ragazzi dall’ergastolo potenziale a cui sono soggetti se si trovano a vivere nel quartiere Brancaccio, a Palermo, o in quello di Librino a Catania, o a Scampia, a Napoli…
Perché la vicenda di Salvatore, che in qualche modo interpella tutti, evidenzia una volta per sempre che la scuola, troppo presto abbandonata da Salvatore e da suo fratello, avrebbe potuto costituire invece la sola ancora di salvezza contro la ferocia e l’abiezione umana prima, la morte sociale poi.
Nell’appendice, infine, il dottor Fassone propone alcune considerazioni, pacate e circostanziate, riguardo all’ergastolo, nervo scoperto su cui tanti hanno ritrosia a confrontarsi. Inclusa chi scrive: una siciliana ferita profondamente dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, dalle centinaia di poliziotti, magistrati, giornalisti, medici trucidati dai mafiosi, da un suo alunno dagli occhi azzurri ammazzato a 23 anni… La scrivente, spettatrice attonita di tanta violenza, è stata spesso tentata di dire: mettiamo dentro i responsabili e gettiamo la chiave…
Ma “ogni problema complesso – rammenta il magistrato – richiede di essere affrontato non solamente dall’angolo visuale dei propri sentimenti”. Così, alla fine del libro, a chi legge si schiudono altri pensieri: si capisce ad esempio, tra l’altro, che la dimensione temporale, in prigione, ha una cadenza diversa rispetto a fuori: se sul piano dei numeri cinque anni di reclusione sono una quantità definita e restano tali nel computo ordinario del tempo, in carcere invece “possono pesare come 6 o 8 o 10, a seconda del tipo o dell’età dell’edificio, della capienza, dei servizi o dell’affollamento, in ragione della presenza o della mancanza di educatori, insegnanti o psicologi, dell’assistenza di medici e di terapie; e possono valere anche di più, se sono trascorsi in un regime di massima sicurezza, o in situazioni di emergenza o di sovraffollamento intollerabile”.
Rispetto poi all’interrogativo di fondo – ergastolo sì, ergastolo no – nell’appendice il magistrato illustra con chiarezza la posizione saggia e complessa della giurisprudenza italiana. L’ergastolo, infatti, come e più delle altre pene, deve contemperare sia la funzione retributiva verso il male commesso e di difesa sociale verso il colpevole, che la funzione rieducativa del condannato, prevista dall’art.27 della Costituzione italiana.
Per cui, nella preziosa nota a pag.196, il dottor Fassone sottolinea che “la Corte costituzionale, nel suo sforzo di adeguare sempre meglio l’istituto al dettato della Costituzione, ha sistematicamente rifiutato di contrastare frontalmente l’istituto della pena perpetua, preferendo battere una strada intermedia, cioè quella di ampliare gli spazi degli istituti penitenziari che possono moderare la perpetuità della pena e così coinvolgere l’ergastolano nella responsabilità del proprio reinserimento”.
Allora, il problema di fondo, sottolinea Fassone, è cercare di capire se e quando il Caino di turno si ravvede… Cosa non facile: “Se almeno gli scienziati inventassero uno psicoscopio, con il quale guardare dentro l’anima, e scoprire quand’è che l’individuo si è ‘rieducato’. Ma lo psicoscopio ancora purtroppo non esiste”. “E non tutti hanno la ventura di tenere una corrispondenza con i condannati all’ergastolo“, conclude il magistrato, che però aveva iniziato così la sua riflessione: “Se è vero che anche la pena può dare frutto … se il frutto è davvero maturo, è tempo di coglierlo altrimenti marcisce”. Parole sagge e pesanti che, oltre a chi opera nell’ambito della Giustizia, ciascuno dovrebbe meditare nella sua coscienza.
Allora, un grazie di cuore al magistrato torinese per aver illuminato con il suo libro temi tanto cruciali e fondanti della convivenza sociale. E per averci permesso di compiere un viaggio sconvolgente e fecondo nel mistero dell’animo umano
Maria D’Asaro
Grazie per questo articolo che mi ha davvero commosso. Inimmaginabile pensare che un giudice dialoghi per 26 anni con l’imputato che egli stesso ha condannato all’ergastolo. C’è, dietro a questa vicenda, l’umanità profonda che tutti abbiamo dentro, la capacità di relazionarci col bene e col male senza blindarci dentro a certezze assolute. Ecco, il tema di fondo di questo articolo e forse di questo libro mi sembra essere la relazione dell’Umano con l’Assoluto, col Male Assoluto, ad esempio. Tema che fa tremare le vene dentro ai polsi, perchè è davvero un tema radicale.
Grazie per il racconto di questa vicenda, che credo non si potrà mai più cancellare dalla memoria di chi la ha conosciuta.