ROMA – E’ un dato di fatto che la lingua cambi: non è una novità che su di essa si imprimano gli avvenimenti della storia, della politica, della scienza. La sua evoluzione è continua, non la si può fermare, va da sé con i suoi neologismi, gli ipercorrettismi, i suoi errori che diventano norma. E così, al di là di ogni giudizio o gusto, bisognerà – anzi, bisogna già – prendere atto della rivoluzione in atto nella nostra mentalità, di cui la lingua sta registrando gli effetti. I segni di questo passaggio ruotano tutti intorno al concetto di identità di genere, che sta portando con sé una serie di mutamenti linguistici già molto diffusi in alcuni ambienti e in alcune fasce di età, ma che trova molti ancora perplessi, diffidenti perché dietro le parole c’è un sistema di potere che non a tutti fa comodo scardinare.
Questo concetto, dunque, nato nell’ambito della psicanalisi solo una cinquantina di anni fa, non indica il genere come lo definisce la grammatica e che si esaurisce con l’appartenenza al sesso maschile o al femminile, unici ad essere considerati “normali”. L’identità di genere è qualcosa di molto più profondo di quella sessuale, va oltre il corpo e i suoi attributi: è ciò in cui una persona si identifica, qualcosa che può essere anche molto diverso dall’aspetto fisico, addirittura può non corrispondere ad esso. Oggi, dopo tante battaglie, a cominciare da quelle femministe degli anni ’70 fino a quelle di tanti movimenti attivisti che vengono compresi sotto l’acronimo LGBTQI+ ma anche di linguisti, la definizione di questo concetto ha “liberato” tutte le varianti precedentemente sempre ritenute inaccettabili (gay, omo, trans, bisex etc).
L’espressione “identità di genere” è sicuramente più efficace (rispetto a genere sessuale), per spiegare la relazione tra le parole e quelle persone finora tenute nell’ombra dalla lingua (a dire il vero non solo in Italia ma in molti paesi), tanto da essere indicate con terminazioni inadeguate ma, soprattutto, con il maschile (destino comune a quello riservato alle donne). E’ un percorso iniziato da tempo, che sarà lungo ma non potrà tornare indietro se è vero – come è vero – che le parole contengono fatti e ora quei fatti pretendono dignità grammaticale, letteraria, politica e sociale. La lingua si adegua alla presa di coscienza di quelle soggettività che, per abitudine e motivi socio-culturali e perché non appartenenti (se non fisicamente), al modello maschile o a quello femminile, erano state marginalizzate, medicalizzate o rese invisibili.
Come ciò stia accadendo lo spiega molto bene Manuela Manera nel suo “La lingua che cambia” (ed. Eris, ottobre 2021), laureata in italianistica e ricercatrice di gender studies e linguistica. Della lingua italiana, caratterizzata dal genere maschile come un neutro universale applicato a tutti i generi, la scrittrice parla come di un grande “imbroglio”. “Una faccenda poco chiara – scrive la Manera – un po’ ambigua, un’azione che ricorre a mezzi disonesti per ottenere il suo scopo”. E lo scopo è sempre quello: creare nell’immaginario mestieri, cariche e titoli riferibili solo a uomini. Una forma sottile di discriminazione, secondo la scrittrice. “La quale – spiega – non avviene solo ‘in presenza’ ma anche ‘in assenza’ quando si riconduce tutta la realtà sotto all’ombrello del maschile”. La ricercatrice sottolinea, traendo anche esempi dalla nostra Costituzione, che nella lingua italiana non solo le donne ma tutte le soggettività che non si sono identificate nel modello maschile sono mai state rappresentate in certi contesti. Dalle parole derivano poi a cascata prassi, regole, comportamenti, ormai talmente radicati nella nostra tradizione che neanche ci facciamo caso.
Le mutazioni in atto nella nostra lingua nascono, quindi, dalla progressiva autodeterminazione di tante soggettività che sono pronte a dichiararsi e chiedono di essere indicate con parole precise, che non lascino dubbi. A detta di Manuela Madera, più che di un mutamento si tratta di riportare in funzione le regole grammaticali che nel tempo si sono irrigidite e sclerotizzate a vantaggio degli uomini. Si potrà ricorrere, per rieducarci ad un uso più corretto e preciso della lingua, a persona, essere umano, gruppo, personale, popolazione, o ad altri giri di parole cercando di non ricadere, per abitudine o pigrizia, al maschile. Proprio per questo “vizio” esso è diventato predominante nella nostra lingua dove ha finito per rispecchiarsi nella composizione della società e nell’asimmetrico riconoscimento dei diritti. Più rispettoso delle componenti del mondo LGBDT+, ma anche per evitare la ripetizione di maschile-femminile, è l’uso di caratteri grafici o suoni (schwa) che non riproducano né il suono della -a né della -o . Non riferendosi ad un genere in particolare, la comunicazione, il benvenuto, l’esortazione, i saluti vengono diretti a tutte le persone presenti, senza escludere nessuno per i suoi gusti sessuali o per essere, semplicemente, gender fluid (non etichettabile).
Quando si dice che non è su questi particolari che si fa giustizia inconsapevolmente manifestiamo di averla tutti quella pigrizia, quell’abitudine ad un uso improprio delle parole. La nostra Costituzione assicura, con l’articolo 3, pari dignità e uguaglianza a tutti i cittadini ma già nel suo enunciato tradisce una preferenza. E questa preferenza, sicuramente involontaria e figlia dei tempi, ha avuto tante conseguenze in prassi, regole comportamenti che hanno danneggiato e fatto soffrire.
Gloria Zarletti
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