ROMA – Moriva 100 anni fa, sulle rive del mare di Napoli, uno dei più grandi tenori del Novecento, il napoletano Enrico Caruso, cui fu pari per i caratteri del canto solo Luciano Pavarotti. Ma agli inizi della sua arte, Caruso ci ricorda piuttosto la compaesana Sofia Loren, grande attrice figlia della miseria ancorchè nutrita dalla bellezza del mare partenopèo. E per rendere onore a Caruso, l’Accademia di S.Cecilia gli ha dedicato il concerto del 22 dicembre, in cui il direttore dell’Orchestra ceciliana Riccardo Frizza ha guidato nelle celebri arie della “Bohème” e dei capolavori di Verdi e Puccini nei teatri del mondo, il tenore messicano Javier Camarena, dalla voce bellissima e carico di premi internazionali.
Caruso, figlio di un operaio, lavorò nell’officina paterna, ma presto notato per la sua voce, iniziò a cantare nei locali, come il celebrato Gambrinus, finchè il M° Vergine a Napoli non gli impartì lezioni gratuite, con l’accordo che, se avesse iniziato la carriera, per i primi cinque anni gli avrebbe dovuto versare il 25 per cento del guadagno. Caruso dopo i primi successi in Sicilia, passò alla Scala di Milano e nel 1898 interpretò una “Bohème” diretta da Toscanini, col quale non ebbe un rapporto sereno: ma con Puccini sì, e questi gli dedicò “La fanciulla del West”. Ormai l’artista guadagnava 12mila lire al mese, e decise di cantare al S.Carlo di Napoli, cui teneva moltissimo. Era il 1901 ed interpretò “L’Elisir d’amore” di Donizetti, per 3000 lire a recita: ma la freddezza del pubblico e le stroncature della critica, che lo accusò di aver cantato da baritono, lo trascinarono nel giuramento di non tornare più a Napoli e nel pur amato teatro.
Tornò solo per comprarsi una casa (presso Siena, non presso la città in cui era nato) e per morire nella sua terra il 2 agosto 1921, a Sorrento. Intanto a New York i cantanti facevano di tutto per esibirsi con lui, e i librettisti altrettanto: la sua fama, all’apice, giunse a D’Annunzio, che gli dedicò – poiché il tenore amava molto le canzoni italiane – “ ‘A vucchella”. E, quando gli si guastò l’automobile in piena campagna, e gli operai che lo aiutarono gli dissero “Maestro, noi non abbiamo la possibilità di andare a teatro: canti qualcosa per noi!”, egli si commosse e intonò la famosa canzone “Mamma: solo per te la mia canzone vola”. Ancora nel 1910 Caruso cantò a Cuba per 10.000 dollari a recita. Ma aveva una professionalità straordinaria: aveva perfezionato una tecnica di respirazione polmonare per cui i suoni non si modificavano nella tonalità. Diceva che in apertura conta la gola, non l’apertura della bocca. E che il momento di lasciare il canto, non deve essere quello in cui il pubblico si accorge del declino.
Disse poi di se stesso: “Ho sofferto nella vita, e il mio canto lo registra: perciò la gente piange. E chi non sente, non può cantare”. Enrico giovane si innamorò di Ada Giacchetti, avendone due figli, Rodolfo ed Enrico junior, poi l’amore finì. Solo nel 1918 egli sposò Doroty Benjamin, da cui ebbe la bimba Gloria. Poi quella gola perfetta, modellata dalla sua tenacia e volontà, fu aggredita dal male, da “quel” male: tornando con Doroty e la bambina da New York, sbarcò a Napoli, e pianse rivedendo l’officina del padre.
Infine volle scendere a Sorrento, dove fu ospitato nell’Albergo Vittoria: il male progrediva ed egli vi trovò la morte, che lo uccise a 48 anni. Piace ricordare che in quell’albergo capitò, per un incidente all’imbarcazione, Lucio Dalla, nel 1986. Sapeva che lì era deceduto il grande Caruso, e passò una notte di amarissima sofferenza. Ma la gente che pur innumerevole era corsa in piazza Plebiscito a Napoli, per i funerali dell’indimenticabile tenore, rimase ancora fredda, mentre altrove, negli Stati Uniti e nel mondo, montava e ingigantiva il suo mito.
Paola Pariset
Nell’immagine di copertina, il grande Enrico Caruso con la moglie Ada Giacchetti
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