ROMA – Due importantissimi eventi musicali, si sono dati appuntamento in due giorni consecutivi, rispettivamente al Teatro dell’Opera il 20 novembre, e in Sala S.Cecilia al Parco della Musica il 21. Quest’ultimo, realizzato dall’Accademia Nazionale di S.Cecilia che ha visto sul palcoscenico i celeberrimi orchestrali Berliner Philharmoniker, era in collaborazione col RomaEuropa Festival, che in tale trionfale modo ha concluso la splendida sua stagione 2021.
Diciamo subito che l’eccezionale ensemble tedesco, fondato nel 1882, e oggi con statuto personale e autonomo, è stato diretto da straordinari direttori – von Bülow, Furtwängler, von Karajan per 35 anni fino alla morte, Abbado, e ora Petrenko – è ormai divenuto prima istituzione musicale nel mondo: esso a Roma mancava da 17 anni, e l’attesa enorme ha riempito totalmente la Sala S.Cecilia. Il presidente-soprintendente dell’istituto ceciliano M° Michele Dall’Ongaro ha presentato con orgoglio il concerto, dedicato alle vittime del coronavirus e unica tappa italiana della presente tournée. Il direttore principale e direttore artistico della compagine, Kirill Petrenko, ha guidato i raffinati strumentisti (modellati da decennali bacchette), divenuti un corpo solo con lui, nella Sinfonia n.3 “Scozzese” di Felix Mendelssohn ventenne, nel 1829 (ma l’elaborazione fu ben più lunga) e poi nella “Sinfonia n.10” di Dmitri Shostakovich del 1953, scritta appena morto Stalin, suo orribile persecutore.
Subito è comparso il mitico suono dei Berliner, e la straordinaria misura con cui Petrenko ha interpretato la Sinfonia mendelssohniana: ciò accanto alla resa eccezionale della violenza demoniaca, con cui Shostakovich ha musicalmente disegnato Stalin (riprendendo ad esempio il tema dello Scherzo nella Sinfonia da “una scena di carica della polizia del film “Unità”). Indicibile il successo e il plauso del pubblico per la levatura dell’esecuzione, di cui Petrenko ha fatto grande dono ai romani.
Intanto sabato 20 il Teatro dell’Opera ha inaugurato la propria stagione con una creazione contemporanea – cosa accaduta solo nel 1901 per “Le maschere” di Mascagni – commissionata appositamente al compositore Giorgio Battistelli: la tragedia in musica “Julius Caesar”, con direzione musicale di Daniele Gatti e regìa di Robert Carsen. Il libretto, in due atti ripresi dal capolavoro di Shakespeare, è firmato da Ian Burton, ha uno staff in gran parte inglese e tutto al maschile (tranne Calpurnia moglie di Cesare, Ruzandra Donose) ed è ambientato nella Roma di oggi, fra i seggi senatori in velluto rosso (di Radu Boruzescu) e protagonisti in giacca e cravatta odierni (di Luis Carvalho). Le spoglie scene, le luci precipitanti nel buio (di Carsen) veicolano la tragedia, unendosi alle voci strettamente incastrate nella strumentazione. Non ci sono arie, non ci sono melodie, solo serrati dialoghi e la durezza dell’esistere. Ma non c’è nemmeno condanna dell’omicidio cruento e senza perdono, perchè ovunque affiora il respiro dell’anima pura, nel superiore ideale di libertà di Bruto. Disegnato da Battistelli come un faro di luce, Bruto (Elliot Madore), più che Cesare (Clive Bayley), ascende a protagonista di tutta l’opera. Opera tanto aspra e scavata, quanto capace di riportare a vergine la purezza dell-anima di un uomo che ha ucciso.
Paola Pariset
Nell’immagine di copertina, Elliot Madore (Brutus)nell’allestimento del “Julius Caesar”
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