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Il “vero” Giulio Cesare spiegato dallo schiavo

di | 2021-11-28T15:21:13+01:00 28-11-2021 6:30|Cultura, Sezione 7|0 Commenti

ROMA – C’è una complessità di relazioni tra autori e personaggi nell’ultima fatica di Sergio De Santis, “Lo scrivano di Cesare” (ed. Mondadori, giugno 2021). Catalogato come romanzo storico, in realtà i suoi contenuti vanno molto oltre questo genere letterario lambendo contesti molto più arditi e raffinati, filosofici e politici. La trama sembrerebbe semplice: un giovane schiavo greco, che è riuscito a studiare essendo stato adottato da una famiglia romana, viene scelto per scrivere sotto dettatura ciò che Cesare racconta delle sue imprese in Gallia. E’ lui che annota con dovizia di particolari ciò che il suo insigne padrone vuole far conoscere di sè ai romani e ai posteri. Mentre svolge il suo lavoro, Aristocle – così si chiama il protagonista del romanzo – riflette sulle discrepanze tra i fatti veramente accaduti e la versione data di essi dal suo speciale datore di lavoro. E’ così che comincia anche lui a scrivere un libro – stavolta il suo – per raccontare chi è veramente il grande condottiero.

Fin qui non ci sarebbe niente di strano, a parte il fatto che Aristocle per primo ci fa conoscere il comandante per antonomasia sotto una luce nuova, che risulta assai diversa dal ritratto che lui fece di se stesso nel De Bello Gallico. Il racconto che ne esce, interessante per ripensare un capitolo di storia su cui si è sempre sospettato, si offre anche per numerose considerazioni su Sergio De Santis. L’autore, noto per la sua prosa sobria e chiara, cela sotto le sue trame apparentemente nitide tutto un mondo di rimandi e contaminazioni. Scorrendo le pagine del libro si ha già dall’inizio l’impressione di una citazione colta nel monologo interiore di Aristocle che sembra richiamare un noto precedente, anch’esso frutto di fantasia dell’autrice: le “Memorie di Adriano”, capolavoro di Marguerite Yourcenar.

Lo scrittore Sergio De Santis

Sotto i ricordi e i racconti dell’ex schiavo, però, è possibile svelare tutto l’universo – inaspettato – delle parole e della loro potenza. E viene fuori dalle 216 pagine del libro che esse non sono solo lo strumento attraverso il quale si raccontano le vicende storiche ma sono soprattutto il mezzo con cui si può interpretare, simulare o dissimulare la realtà con conseguenze pericolosissime. Accorgimenti tecnici, questi, che Cesare conosceva molto bene essendosi formato lui stesso in Grecia alla scuola dei migliori maestri di grammatica analogista e di eloquenza. Alle parole il generale non dà, infatti, tregua: le sceglie, le dispone, le accosta con una sintassi nitida e chiara per conferire loro le applicazioni, le implicazioni, il significato che non solo lui esprime ma che i romani “devono” intendere, volto come è a sottolineare le proprie intenzioni, valorizzare ed esaltare la propria autorevolezza e quella tanto decantata attitudine al comando che lo ha fatto diventare l’emblema del potere.

Tutto questo oggi si chiama demagogia ed Aristocle guarda a queste qualità, che pure sono quelle che lo stesso Cesare si attribuisce, con atteggiamento sprezzante, quasi irriverente nei riguardi del capo dell’esercito più rispettabile di tutta la storia. Lo schiavo che ha finto per tutta la vita di essere sciocco, mentre fa il gioco del suo padrone scrivendone “pedissequamente” le imprese sotto dettatura, racconta un’altra verità che però è finzione anch’essa perché il libro che sta scrivendo, in realtà, nasce dalla penna di Sergio De Santis. Aristocle scrive un suo ritratto di Giulio Cesare che è, però, nato nella testa di chi ha dato vita a lui stesso: De Santis, appunto. E c’è di più: l’autore lo ha creato talmente simile a sè da farlo sembrare addirittura il suo alter ego.

Volontariamente o no, in questo sistema dei personaggi torna lo schema di Plauto, il primo commediografo romano, un ex schiavo anche lui portato a Roma dopo la seconda guerra Punica. E’ lui, non a caso, l’inventore della figura del “servo astuto”. La sua commedia “Pseudolus” (Bugiardo), tratta infatti di un servo (apparentemente) sciocco che nel fare il gioco del suo padrone, lo sbeffeggia e lo irride. In un monologo, tra finzione e realtà e facendo magie con le parole, scambia la sua identità con quella dell’autore della commedia.

Anche Aristocle come Pseudolus è il doppio del suo autore, che ricorda per il suo sorriso socratico (De Santis ha insegnato per anni filosofia), per il suo spirito burlone che porta direttamente a quello del partenopeo De Santis. Non manca in Aristocle come nel suo inventore una latente tristezza (presente già nel precedente romanzo “Non sanno camminare sulla terra”), per non parlare dell’accuratezza di entrambi nella scelta delle parole e per la disposizione piana e semplice di queste sul foglio bianco. Autore e protagonista sono legati anche dalla consapevolezza di essere fuori contesto in una società dove quelle parole sono spesso usate a sproposito e male, con cattive intenzioni. Per allontanarsi da quella società entrambi trovano nella scrittura, quella onesta e trasparente, l’unica via. In tutto questo intrecciarsi di ruoli Cesare rappresenta l’esempio più lampante di quanto la parola e la scrittura possano essere asservite al potere in dinamiche legate alla mistificazione della realtà, al doppio, al fascino della manipolazione. Lo scrivano Aristocle-Pseudolus-De Santis, da parte sua, è la personificazione dell’arte pura, quella che spesso non viene notata, che è costretta a nascondersi o a piegarsi a logiche di mercato e di potere ma pure c’è e si fa sentire sotto le pieghe dell’ufficialità. E’ l’arte che quando a fatica riesce ad emergere creando l’emozione di cui sono capaci solo le cose belle.

Gloria Zarletti

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