PERUGIA – É diventata una storia infinita, la morte – un mistero ancora oggi – di Marco Pantani (13.1.1970-14.2.2004), il campione romagnolo di ciclismo, trovato esamine alle 20.45 – sebbene il decesso venga fatto risalire a qualche ora prima: tra le 12 e le 14) nella camera 5D di un residence di Rimini dal nome rassicurante e sereno (Le Rose). L’autopsia, confermata dal verdetto della Corte di Cassazione nel 2016, attribuì il decesso ad “un edema polmonare e cerebrale per overdose di cocaina e psicofarmaci”, escludendo l’omicidio ed anche una overdose casuale. Secondo i giudici, insomma, il campione si sarebbe suicidato con l’ingestione di un mix fatale.
Ma ecco che ora è stata aperta una nuova inchiesta – la terza – sulla scorta di elementi inediti raccolti dalla Commissione parlamentare antimafia che ha preso atto delle dichiarazioni di uno spacciatore (già condannato in via definitiva con un complice per aver consegnato la cocaina al ciclista) il quale sostiene come il campione “fu ucciso”. Lo stesso, che aveva conosciuto e frequentato Marco cinque-sei mesi prima del tragico decesso, ha dichiarato non solo che il corridore non aveva alcuna intenzione di suicidarsi, ma che stava ancora inseguendo la verità, indagando insomma, su quanto gli era caduto tra capo e collo a Madonna di Campiglio, con la traumatica esclusione dal Giro d’Italia, che aveva segnato in pratica la fine anticipata della sua carriera. Lo spacciatore avrebbe anche fornito un ulteriore particolare e che cioé nella stanza del residence Pantani avrebbe custodito una somma in contanti piuttosto rilevante (20.000 euro) spariti nel nulla.
A queste testimonianze si aggiunge una affermazione di Renato Vallanzasca che ha sostenuto come, all’epoca dello scandalo (5.6.1999, quando il “grimpeur” italiano impegnato nel “Giro d’Italia”, che stava dominando, venne trovato dai controlli con un valore dell’ematocrito fuori scala sia pure di pochissimo ed escluso dalla corsa) un conoscente napoletano, vicino a gruppi camorristici, gli aveva suggerito di scommettere forte sulla sconfitta di Pantani che “non avrebbe finito il Giro”. Anche un ex ufficiale della finanza avrebbe dichiarato di aver saputo da un corridore che, il giorno prima del controllo antidoping, mentre si festeggiava in allegria l’ormai certa vittoria del romagnolo, qualcuno sarebbe uscito con una frase raggelante e scioccante: “Domani Pantani sarà fuori gioco”.
Al fascicolo – che l’Antimafia ha girato per competenza alla procura romagnola – è stato accluso pure un corposo memoriale di 51 pagine, presentato dalla difesa – gli avvocati Fiorenzo e Alberto Alessi – che difendono gli interessi di Tonina Belletta, la mamma della vittima. Quest’ultima, all’inizio dell’anno (l’apertura di questa inchiesta risale infatti al 2019), è stata ascoltata dai magistrati di Rimini, il procuratore Elisabetta Melotti e il sostituto Luca Bertuzzi. Se per la Suprema Corte l’omicidio ventilato altro non sarebbe che una “mera, fantasiosa congettura” e la morte dell’asso delle due ruote verrebbe fatta risalire alla conseguenza di “una assunzione volontaria di massicce dosi di cocaina e di farmaci antidepressivi”, i familiari ritengono, anche alla luce di elementi di cui non si è tenuto – a loro avviso – abbastanza conto, che Marco sia rimasto vittima di un omicidio, opera di un killer senza volto, che voleva chiudergli la bocca, impedire che potesse dimostrare la sua versione dei fatti, la sua correttezza e pulizia morale e sportiva. Stessa affermazione rilasciata dal pusher all’Antimafia (che ha parzialmente secretato l’audizione) e in linea con la confidenza ricevuta da Vallanzasca (i camorristi che puntavano cifre rilevanti nelle scommesse clandestine contro il successo de “Il Pirata” nella corsa “rosa”).
Secondo questa ipotesi a Madonna di Campiglio una mano – rimasta oscura – avrebbe scambiato le boccette del sangue da sottoporre ad esame per far scattare la squalifica e mettere fuori gioco il campione (pure a conoscenza del controllo antidoping), che l’anno precedente aveva primeggiato al Giro ed al Tour (doppietta riuscita a pochissimi assi del ciclismo). Dopo la clamorosa squalifica e il bruciante smacco subiti, Pantani entrò in depressione. Tornò a gareggiare, ma senza toccare i picchi che lo avevano reso immortale tra i campioni della specialità di tutti i tempi. Tuttavia – è la convinzione dei congiunti, degli amici, di chi lo frequentavave e lo conosceva almeno un poco – Marco, a 34 anni, non aveva alcuna ragione per togliersi la vita. E il fornitore di droga afferma che i grammi di “neve” consegnati al ciclista non avrebbero potuto provocarne il decesso. Altri amici sottolineano e rimarcano come Marco continuasse a ripetere che dietro la sua squalifica ci fosse “un complotto” di cui era sua intenzione, primaria ed assoluta, scoprire gli autori.
Marco Pantani, per gli amanti del ciclismo, resta un mito. All’inizio dell’estate il paese di Villa Pitignano, frazione di Perugia, ha dedicato una piazza al “Pirata” che qui, nella primavera del 1988 aveva gareggiato nella categoria juniores. Negli anni del professionismo (1992-2003), durante i quali aveva corso con i colori della “Carrera Jeans” e della “Mercatone Uno”, Pantani, oltre al Giro ed al Tour, aveva ottenuto, un bronzo ai mondiali e 46 vittorie di tappa. Alcune rimaste storiche come all’Alpe d’Huez e al Mont Ventoux (di cui il romagnolo venne etichettato come “il re”). Al ciclismo Marco era approdato, dopo aver provato diversi sport, non spinto dal padre Ferdinando, detto Paolo (che gli aveva, piuttosto, fatto amare la pesca), ma dal nonno Sotero, che lo aveva incoraggiato e sostenuto. Pantani aveva spopolato tra i dilettanti ed altrettanto stava facendo tra i professionisti. Campione in sella alla bici, ma forse con una personalità non strutturata e fragile. Davvero qualcuno lo aveva voluto far fuori dalle corse e, per coprire il complotto, sarebbe arrivato, senza remore e senza pietà, all’omicidio? Sembra la trama di una fiction intricata, basata su continui colpi di scena. Ma alle volte la realtà supera persino la fantasia.
Elio Clero Bertoldi
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