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Michelangelo, appena un metro e 60, ma un vero gigante

di | 2021-11-14T15:02:22+01:00 14-11-2021 6:20|Arte, Sezione 5|0 Commenti

PERUGIA – Un metro e sessanta. Tanto ritengono fosse alto Michelangelo Buonarroti (1475-1564) gli esperti Francesco Maria Galassi, paleopatologo, ed Elena Varotto, bioantropologa, che hanno resi noti i risultati delle analisi, degli accertamenti e delle ricerche svolti su una rivista scientifica specializzata, “Anthropologie”. Per determinare l’altezza del Buonarroti i due professionisti hanno esaminato un paio di scarpe di cuoio ed una pantofola (l’altra è stata rubata il 14 gennaio 1873), tutte conservate nella “Casa Museo” di Firenze e ritenute come appartenute e calzate dall’artista. Che Michelangelo non fosse alto lo sostengono anche i primi biografi, tra i quali Giorgio Vasari che lo definisce “di mediocre statura”.
Comunque l’altezza dello scultore, pittore, architetto e poeta della Valtiberina – era nato a Caprese, dove il padre e la madre (Lionardo e Francesca di Neri del Miniato del Sera), fiorentini, si trovavano per gli impegni del genitore mandato da Firenze a svolgere le funzioni di podestà, in un luogo lontano e poco importante, per la verità – non è che appaia un particolare importante, decisivo. Più significativo conoscere il carattere, il grado di cultura, il modo di porsi al mondo di questo vero e proprio gigante dell’arte di tutti i tempi.

Lui stesso raccontava di essere nato in un paese di scalpellini e di essere stato allattato da una balia figlia e moglie di artigiani di questo comparto. Si diceva, insomma, cresciuto a latte e polvere di marmo…
L’arte della pittura l’aveva appresa a Firenze – nella bottega del Ghirlandaio, dove il padre (pressato da pesanti problemi economici) l’aveva mandato – e l’aveva poi approfondita nel Giardino di San Marco ed in casa De’ Medici, in cui era stato accolto e dove oltre ad altri artisti, aveva avuto la possibilità di conoscere e frequentare intellettuali di solido e, per l’epoca, di primo livello quali Poliziano, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, lo stesso Lorenzo Magnifico, suo figlio Giovanni (poi papa Leone X) e il nipote Giuliano (figlio di un fratelli, salito al soglio col nome di Clemente VII).

Due episodi, apparentemente minori, avvenuti in questo ambiente (in particolare poco dopo la morte del Magnifico) tendono ad illuminare la personalità di Michelangelo. Il primo fu una scazzottata che l’artista, ancora minorenne, ingaggiò con un altro artista, Piero Torrigiani. Ebbe la peggio, nello scontro, il Buonarroti (si prese un pugno al setto nasale, che lo segnò per sempre – naso da pugile – cambiandogli i connotati), ma il suo avversario venne esiliato da Firenze e fu costretto a cercar fortuna in Spagna. Il secondo avvenimento fu una statua di neve (chiamarla pupazzo sarebbe riduttivo) tirata su nei giardini Medicei e durata, in quel gelido gennaio del 1494, per otto giorni, tanto da venire ammirata, in pratica, dall’intera popolazione fiorentina.

Sempre a Firenze (dopo un viaggio a Venezia e Bologna) Michelangelo si segnalò per una scultura di marmo rappresentante Cupido, dio dell’amore, che all’insaputa (inizialmente) dell’artista, fu sepolta sotto terra per regalarle una patina di antichità e fu venduta, poi, come reperto della classicità romana al cardinale Raffaele Riario (nipote di papa Sisto IV). Quando il porporato si rese conto del raggiro di cui era rimasto vittima si inquietò di brutto, ma invitò Michelangelo a Roma, riconoscendo l’alta qualità dello scultore, che pochi mesi più tardi creò lo spettacolare, grandioso “David” per la Repubblica di Firenze (nella commissione per decidere dove dovesse essere collocata la statua figuravano artisti come il Ghirlandaio, il Pollaiolo, Filippino Lippi, il Botticelli, Antonio e Giuliano Sangallo, il Sansovino e persino Leonardo ed il Perugino).

La fama di Michelangelo era cresciuta così tanto da approdare persino in Oriente: il sultano da Costantinopoli gli sollecitò il progetto di un ponte sul Corno d’Oro, ma la commissione non andò in porto. Rispose invece, Michelangelo, al papa-guerriero Giulio II (un Farnese) per il quale affrescò la Cappella Sistina e successivamente ai pontefici di casa Medici (il primo dei quali creò Conti Palatini, tutti i Buonarroti). Pur ormai celebre, Michelangelo, andava di persona a scegliere il marmo e nel 1518 rischiò un terribile incidente sul lavoro. Una colonna di marmo, evidentemente non ben fissata, precipitò dal carro che la trasportava, sfiorando l’artista e uccidendo sul colpo un operaio, che si trovava al suo fianco.

Tornato a Firenze, dopo il sacco di Roma del 1527 ad opera dei Lanzichenecchi, Michelangelo fu nominato “governatore generale sopra le fortificazioni” e dunque consigliere stretto del comandante dell’esercito, il perugino Malatesta IV Baglioni. Alla resa della città ed al rientro dei Medici, l’artista fuggì a Venezia. Ma la sua bravura fece dimenticare ai pontefici romani il suo spirito decisamente repubblicano. Ed eccolo a Roma ad affrescare il “Giudizio Universale”, commissionatogli da Paolo III Farnese (definito “invadente” dallo stesso artista, perché gli stava sempre intorno durante il lavoro) per il quale sacrificò la Pala dell’Assunta del Perugino e due suoi stessi lavori di una ventina d’anni prima.

Fu a Roma che conobbe la marchesa Vittoria Colonna, vedova d’Avalos, poetessa, religiosissima ed a capo di un circolo di intellettuali cattolici riformisti quali, tra gli altri, il cardinale Reginald Pole, inglese, Pietro Carnesecchi e la nobildonna Giulia Gonzaga. Con Vittoria allacciò una relazione platonica (secondo i più), ma profondissima, come testimoniano i sonetti che i due si scambiarono. Quando nel 1547 la marchesa morì, il Buonarroti ne rimase talmente addolorato da sprofondare nella depressione più cupa. Dopo aver completato la facciata di palazzo Farnese e lavorato alla basilica vaticana, l’artista che aveva un carattere “fumino” (sono attestati litigi frequenti e furiosi persino con papa Giulio II, un Della Rovere) si allontanò da Roma diretto a Loreto. Ma mentre faceva tappa a Spoleto, lo raggiunse un “invito”, perentorio, del pontefice e così l’artista fu costretto a rientrare in gran fretta alla corte papale. L’ultimo onore che gli venne riconosciuto, in vita, fu l’essere stato nominato Console della “Accademia e compagnia dell’arte e del disegno”  di Firenze (voluta da Cosimo de’ Medici e organizzata dal Vasari).

Sull’artista, in vari periodi, si diffusero ed addensarono voci che lo accusavano di omosessualità (gli vennero affibbiate relazioni con Febo del Poggio, Gherardo Perini, Cecchino Bracci, oltre che con l’allievo Tommaso de’ Cavalieri, tutti giovani, belli ed aitanti), basate pure sul fatto che il fiorentino non si fosse mai sposato e che dipingesse, quasi esclusivamente, personaggi maschili, muscolosi ed atletici. Michelangelo stesso, in un sonetto, respinse, con vigore, le dicerie diffamanti. Si spense a Roma, nella sua casa di piazza del Macel dei Corvi, distrutta per far spazio al Vittoriano. La salma venne portata nella chiesa dei Santi Apostoli, su disposizione di Pio IV (casata dei Medici, ramo milanese).

Ma il governo fiorentino pressò, con ferma decisione, la Santa sede per riavere la salma e il nipote Lionardo si fiondò nella città eterna e riprese il corpo del congiunto (o con il consenso papale o portandolo via di notte: le fonti non sono concordi), caricando la bara su un carro. Di certo Firenze gli tributò funerali di Stato e gli dedicò un monumento in Santa Croce, dove venne tumulato.
Quest’uomo permaloso, irascibile, sempre insoddisfatto, vissuto in maniera modesta, tanto da essere ritenuto al limite della povertà, lasciò invece alla famiglia un vero e proprio tesoro. In una cassa nella abitazione spoglia di Roma dove viveva con un servitore, il nipote recuperò un cofanetto ricolmo di monete d’oro. Particolare che dipinge l’artista con pennellate di avarizia e di avidità. Forse, sotto questo profilo, fu condizionato dal periodo di povertà, se non di indigenza, vissuto e sofferto in età infantile.
Restano, comunque, le spettacolari opere di scultura, di pittura, di architettura, di poesia a testimoniare che Michelangelo Buonarroti sia un gigante dell’arte di tutti i tempi. Se, come uomo, ha prestato il fianco a qualche critica ed ha davvero avuto qualche difetto, qualche pecca, beh, valga anche per lui il giudizio del “Nessuno è perfetto”.

 Elio Clero Bertoldi

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