BENEVENTO – Parlare delle Forche Caudine, ancora adesso, riempie di orgoglio i beneventani. Fieri di un atto eroico e, soprattutto, compiuto verso chi, da lì a poco, avrebbe conquistato il mondo allora conosciuto. Ritornare su quei luoghi, ripercorrere le tappe dell’esercito romano e capire come era possibile, attraverso una sana astuzia, sconfiggere il nemico e addirittura umiliarlo, è cosa strabiliante. Un manipolo di uomini, certo agguerriti e scaltri, ma pur sempre rudi e poco addestrati, riuscirono ad avere la meglio contro una realtà organizzata militarmente ma, evidentemente, poco avvezza a quei luoghi idonei a rappresaglie belliche. D’altra parte non bisogna dimenticare che i Sanniti erano fortemente legati a quei luoghi natii, quindi la loro battaglia era molto più “motivata” rispetto a chi tendeva a conquistare e combattere per terre alquanto sconosciute.
“Senza che ne venga dato l’ordine si arrestano: gli animi sono presi da sgomento, le membra irrigidite da una specie di torpore; si guardano gli uni gli altri come se ciascuno cercasse nel viso del compagno un’idea o un progetto di cui si sente privo: immobili in lungo silenzio” (Tito Livio, “Ab Urbe condita” libri, IX, 2)
Stando alla narrazione di Livio, è così che dovettero sentirsi i soldati romani alle Forche Caudine. Stretti tra due gole profonde, ricoperte di boschi, congiunte l’un l’altra da monti che non offrivano passaggi, ai Romani fu sbarrata anche la più improbabile via di fuga da tronchi d’albero e poderosi macigni. La Seconda Guerra Sannitica era iniziata ormai da qualche anno, cinque per l’esattezza. Era il 321 a.C., e dopo una prima fase di stallo, di violente scaramucce e mosse strategiche tra la Campania settentrionale e la valle del Liri (quest’ultima sicuramente fu una zona decisiva per le operazioni belliche, in virtù della sua importanza strategica per entrambe le fazioni), i due consoli romani, Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino, decisero di adottare una nuova strategia.
Gli eserciti furono così riuniti per invadere il Sannio, non dalla parte della valle del Liri, bensì muovendo dalla Campania. Roma inviò così circa 20000 uomini, secondo Livio con l’intento di attraversare l’intero territorio nemico per andare a liberare l’assediata Luceria. L’obiettivo fu probabilmente un altro: eliminare i Caudini, avanzare verso Maleventum e quindi annientare gli Irpini, per costringere i Sanniti alla pace.
I Sanniti, guidati da un giovane generale di straordinaria abilità strategica, Gaio Ponzio, sorpresero infatti i Romani, osservandoli dall’alto delle loro fortificazione e riuscendo così ad intuire le mosse avversarie. Avanguardia e retroguardia romana si accorsero forse in ritardo della trappola in cui erano caduti. Lo sgomento fu davvero considerevole quando, calata la notte, i Romani si videro accerchiati dai fuochi degli accampamenti nemici. Nonostante Livio sostenga che non vi fu un vero e proprio combattimento, altre fonti lasciano intendere che gli eserciti di Roma cercarono invano di farsi strada combattendo, fin quando i consoli compresero che non restava loro che la resa.
Con gli eserciti consolari arresisi e in loro potere, i Sanniti annunciarono le loro condizioni per la pace, che furono accettate, cosicché i consoli firmarono il trattato a nome di Roma: i Romani dovevano ritirarsi dal Sannio, le colonie latine da loro fondate dovevano essere abbandonate. Gli uomini furono risparmiati, disarmati e costretti a passare sotto il giogo, vestiti soltanto delle tuniche, e lasciati andare, liberi ma umiliati.
Cinque anni di pace seguirono ai fatti delle Forche Caudine, durante i quali Roma ebbe occasione di riorganizzarsi. Nel 316 infatti le ostilità ripresero per quella che fu una fase completamente nuova del conflitto. Per il resto è storia che conosciamo bene.
Innocenzo Calzone
Il luogo delle Forche Caudine è tra Arienzo e Arpaia.