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Le ninfee di Monet (e non solo) da ammirare a Milano

di | 2021-10-15T19:55:07+02:00 17-10-2021 6:25|Arte, Sezione 6|0 Commenti

MILANO – Per gli amanti dell’impressionismo, vale la pena immergersi in cotanta bellezza, presso l’ex Palazzo Reale di Milano, che accoglie l’attesissima esposizione dedicata proprio al più importante rappresentate dell’Impressionismo: Claude Monet. Sono 53 opere le opere che dal Musée Marmottan di Parigi sono state trasferite a Milano fino al 30 gennaio 2022: tra le tante le sue Ninfee (1916-1919), Il Parlamento, Riflessi sul Tamigi (1905) e Le rose (1925-1926), la sua ultima e magica opera. Un prestito straordinario non solo perché riunisce alcune delle punte di diamante della produzione artistica di Monet, ma anche per l’enorme difficoltà di questo periodo nel far viaggiare le opere da un paese all’altro.

Claude Monet

L’impressionista Claude Monet (Parigi 1840-1926) ci fa entrare nel suo giardino di Giverny e osservare le sue ninfee che egli stesso considerava fondamentali, opere private, tanto da custodirle gelosamente nella sua abitazione di Giverny e che lui stesso non volle mai vendere. “Dipingo quello che vedo, dipingo quello che ricordo e dipingo quello che sento”, diceva l’artista parigino. Nel 1883 Claude Monet si trasferì proprio in una piccola casa colonica presso Giverny, a poca distanza da Parigi. In questo piacevole villaggio il pittore ebbe l’opportunità di coronare il suo sogno acquatico, ed intraprese l’allestimento di un giardino con emerocalle, iris sbircia, iris di Virginia, agapanti, bulbi, alberi di salice e molte altre piante. Particolarmente significativa per Monet fu l’apertura di un piccolo bacino fluviale colmo di ninfee, piante ornamentali che galleggiano sull’acqua rigenerandosi senza sosta, attraversabile con l’ausilio di un piccolo ponte di legno in stile giapponese che ne collega tuttora gli argini e circondato da un vero e proprio tripudio floreale: le rose, gli iris, i tulipani, le campanule, i gladioli, i glicini e i salici piangenti erano solo alcune delle tante specie vegetali che ancor oggi fanno da cornice allo stagno in cui si trovano ninfee e giochi d’acqua.

In questo piccolo paradiso privato Monet trascorse felicemente il resto della sua vita, dipingendo incessantemente. Il motivo conduttore che accompagnò la maggioranza delle opere realizzate dalla fine dell’Ottocento fino al 1926, anno di morte dell’artista, fu proprio quello delle ninfee, piante in grado di generare cangianti effetti di luce e di colore. “Mi ci è voluto molto tempo per capire le mie ninfee. Le avevo piantate per il gusto di piantarle e le ho coltivate senza pensare di ritrarle. Poi ho preso la mia tavolozza e da allora non ho avuto altri modelli”. Anche in questo caso Monet, nell’esecuzione di questo monumentale ciclo, si lasciò travolgere da un grande tormento creativo: egli, infatti, era costantemente inappagato dall’esito pittorico dei suoi dipinti, sui quali rigurgitava quell’insoddisfazione che, se da una parte aveva oppresso perennemente la sua carriera artistica, dall’altra lo spronava ad inseguire nuove idee e nuovi spunti. Le Ninfee riscossero un gran successo di critica e di pubblico.

Le Ninfee, tuttavia, sono lodevoli anche perché hanno ormai abbandonato ogni costrizione della forma, ogni limitazione della composizione e dei “doveri” descrittivi della scena. L’artista, in questo modo, è riuscito ad andare oltre ogni concezione figurativa a lui contemporanea, imprimendo nelle proprie tele una forza che trascende l’Impressionismo stesso verso approdi di visionarietà astrattista. Se negli anni passati i paesaggi monetiani si strutturavano su impaginazioni di ampio respiro, per le Ninfee Monet mostra di prediligere campi medi e primi piani, privi della linea di orizzonte o di un qualsivoglia riferimento spaziale. Sono le ninfee a ricoprire interamente lo spazio pittorico: il cielo scompare, o meglio appare fugacemente, intravisto, nei riflessi equorei emanati dall’acqua dello stagno. Le Ninfee si pongono a contatto tra la realtà fenomenica e quella metafisica, o – per ricondurre la questione in termini artistici – tra l’impressionismo e la pittura astratta.

Il colore è depositato sulla tela per mezzo di pennellate lunghe, filamentose, quasi sinuose. Egli stesso diceva: ”Il colore è la mia ossessione quotidiana, la gioia e il mio tormento”. Queste opere che presentano impressioni allo stato puro, depurate come sono da intenti narrativi, consentono al pittore di scegliere intonazioni cromatiche precise a seconda del suo preciso modo di sentire: abbiamo infatti ninfee rosa, blu, ma anche versioni dove la tavolozza vira su tonalità esangui (come i verdolini o gialli tenui) o, magari, su colori profondi e cupi. Di particolare interesse, poi, è il colore delle corolle delle ninfee, le quali – in quanto bianche – mutano la propria vibrazione cromatica in ragione dell’intensità luminosa della luce e dell’invisibile cielo, secondo un concerto timbrico che non è nient’altro che la reinterpretazione del concetto delle “ombre colorate”, già applicato negli esordi. È così che l’acqua stagnante sulla quale si verifica la fluttuazione instabile delle ninfee – talora turbata dal sopraggiungere di improvvise folate di vento o dalla caduta di un ramoscello d’erba (difficili da captare per un occhio inesperto) – eroga molteplici percezioni di colori, secondo una mappa cromatica di sfumature azzurrine, rosa, verdi riproposta dal pittore nei quadri appartenenti alla serie de Lo stagno delle ninfee, concepita come un’armonia di colori dove a prevalere sono tonalità talora rilassanti, talora squillanti.

Tutti i dipinti colgono un angolo del giardino di Monet a Giverny, il ponte giapponese sospeso tra due chiostre di salici piangenti che con la sua orizzontalità divide lo spazio pittorico in due parti: la frescura scaturita da queste opere è notevole, complice la schermatura offerta dalle morbide chiome delle alberature e il refrigerio recato dallo stagno stesso, impreziosito – ovviamente – dalle immancabili ninfee. Si può notare come i primi quadri appartenenti alla serie descrivano con grande precisione la morfologia del paesaggio rappresentato, pur nell’assenza di effetti di prospettiva.

Con il passare degli anni, invece, i confini tra forma e colore iniziarono a farsi sempre più sfumati, fino a quando la superficie pittorica diventa puro cromatismo astratto, con le pennellate dense e corpose che arrivano a «disintegrare del tutto ogni residuo figurativo», tanto che spesso è quasi impossibile riconoscere il soggetto di cui parla il titolo. Opere come Il ponte giapponese o Salice piangente si ripiegano verso le proprie potenzialità espressive, “spingendosi oltre le possibilità dell’umano vedere”.

Una passeggiata ottocentesca curata da Marianne Mathieu – storica dell’arte e direttrice scientifica del Musée Marmottan Monet di Parigi – che accompagna il visitatore alla scoperta di opere chiave dell’Impressionismo e della produzione artistica di Monet sul tema della riflessione della luce e dei suoi mutamenti.

Claudia Gaetani

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