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Nel nome di Francesco storie legate al Covid

di | 2021-10-17T10:59:26+02:00 17-10-2021 6:05|Attualità, Sezione 2|0 Commenti

RIETI – Per usare le parole di Papa Francesco, la cosa peggiore di questa crisi (sanitaria, economica, sociale, culturale) in cui ci ha spinto il Covid è “sprecarla”. Bisogna interrogarsi, confrontarsi, per non replicare gli errori che ci hanno fatto vivere due anni difficili, complicati, che lasceranno un segno profondo. Per ritrovarsi dopo il tempo del distanziamento fisico, sociale ed emotivo, riprendere il potere delle parole, tornare a condividere esperienze e speranze, l’associazione “Con Francesco nella Valle”, nata nel 2018 per promuovere e vivere i valori francescani della valle reatina, ha organizzato il festival “Con Francesco nella Valle, voci e musiche di un tempo sospeso’, che si è svolto il 9 ottobre a piazza Mazzini, nel centro di Rieti, con le musiche del duo Synfonè (Giovanni Rossi alla chitarra e Gabriele Pirrotta al flauto).

Tre i momenti in cui si è suddiviso il festival, all’insegna dell’accoglienza e dell’ascolto, presentato dal padre francescano Renzo Cocchi del santuario di Poggio Bustone, con la condivisione dei ricordi di chi ha vissuto il Covid come medico anestesista rianimatore, come paziente, come adolescente; il racconto di un migrante afgano, oggi inserito nella città; la Messa celebrata in piazza dal Vescovo Domenico Pompili per chi non ce l’ha fatta e il richiamo alla fede e alla speranza che non ci deve mai abbandonare. Nella piazza si alza un vento fresco, che fa venire i brividi, ma le emozioni condivise scaldano l’anima e fanno bene: c’era bisogno di raccontarsi, di stare insieme e le voci sono inevitabilmente rotte nel ricordare momenti intensamente vissuti.

La prima a prendere la parola è stata Alessandra Ferretti, direttrice dell’Unità di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale reatino San Camillo De’ Lellis: “Abbiamo iniziato a prepararci all’emergenza verso la fine di febbraio, con le sale di rianimazione, che abbiamo successivamente incrementato di altri 10 posti, la sala parto Covid, la sala operatoria Covid. il primo paziente è entrato il 14 marzo e da quel momento non ci siamo più fermati. Nel frattempo cercavamo di mantenere anche interventi di elezione per pazienti oncologici. Ebbene sì, per le continue e diverse emergenze, ho pensato di essere in uno scenario di guerra. Questa esperienza mi ha insegnato a collaborare con altre specializzazioni, a confrontarmi quotidianamente con i medici di medicina generale seguendo tutti le stesse linee guida, il rapporto con colleghi, pazienti e parenti ci ha arricchito molto. La comunicazione è stata difficile e dolorosa, telefonavo tutti i giorni a un ragazzo di 18 anni, la cui madre era ricoverata in gravi condizioni e mi sono resa conto di essere diventata per lui un punto di riferimento quotidiano, come fossi stata sua madre (la donna ha poi superato la crisi ndr)”. “La seconda e la terza ondata – continua – sono state ancora peggio. Nessuno di noi potrà dimenticare il sorriso di un giovane quando lo abbiamo risvegliato, la lettera di un ragazzo che dopo aver vissuto questa esperienza ha detto che studierà medicina, l’abbraccio con un collega che più volte ha rischiato di non farcela. Oggi vedo la vita in maniera differente”.

Pierluigi Salvo, 54 anni, tre figli, dirigente di un polo logistico di spedizioni: “Sono stato fuori dal mondo per due mesi e mezzo e quando mi hanno comunicato che era necessario intubarmi a pochi giorni dall’esito positivo del tampone, ho risposto ‘o sto morendo o state esagerando’. L’ultima telefonata ai figli e poi più niente fino a quando mi hanno risvegliato. Sono stato portato in elicottero al Columbus a Roma, poi a Poggio Mirteto per la riabilitazione. Al risveglio ero completamente paralizzato: tornare a camminare è stato duro. I miei pensieri erano brutti, recitare l’Ave Maria è stato come un abbraccio consolatorio a cui mi sono aggrappato, perché in questa malattia sei solo. Il giorno in cui il fisioterapista mi ha messo in piedi, anche se per pochi secondi, ho visto gli alberi dalla finestra e mi sono detto che San Francesco aveva ragione: ‘quanto sono belli…’. Il ritorno a casa è stato come nascere una seconda volta. Questo è quello che Dio ha fatto con me e lo condivido con voi”.

Prendono la parola i ragazzi del liceo classico Terenzio Varrone. Giacomo: “La didattica a distanza, 6 ore davanti al computer è stata faticosa e difficile, soprattutto per la matematica, più complicata senza l’uso della lavagna e il relazionarsi con i compagni di banco. La scuola è cambiata radicalmente e ora ci siamo resi conto di quanto sia importante”. Alessio ha trovato conforto nello studio e citando gli ultimi versi del Purgatorio di Dante ci dice quanto ne siamo usciti tutti cambiati: “Per la mia generazione però è stato un disastro, con disagi e problematiche difficili: siamo passati dalla vita giocosa alla maturazione, ma questo passaggio non si può fare stando da soli in casa, difficile arginare un fiume in piena senza cambiarne la natura e senza cambiare anche dentro di noi”. Claudia, III classe: “Mi sono sentita come ‘la ragazza alla finestra’, il quadro del pittore francese Balthus, a guardare il mondo da lontano, privata della libertà e degli affetti. La didattica a distanza ci ha fatto capire quanto la scuola sia altro ed è vero che si comprende il valore delle cose quando le perdi. Ho cercato di lavorare sui miei difetti per migliorarmi e i miei genitori sono stati molto importanti. Il Covid ci ha fermato, ma non è vero che chi si ferma è perduto: davanti a un nemico invisibile siamo tutti uguali, ma non siamo soli e sappiamo essere solidali, dobbiamo trovare il nostro posto nel mondo continuando a lavorare su noi stessi per non perderci, perché la vita è breve”.

Nella seconda parte ecco la storia di Zia Jafari, afgano di 31 anni, grazie alla traduzione di Ali Wahdat, mediatore culturale a Roma con la comunità di Sant’Egidio e a Rieti con la cooperativa Il volo, di cui oggi fa parte anche Zia. Ma quanta strada prima di trovare un po’ di pace. La guerra in Afganistan quando era ancora un adolescente, la decisione di andare verso l’Occidente, a piedi tra le montagne, prima in Grecia, poi in Austria, sempre aspettando i documenti che non arrivavano. Infine l’arrivo a Rieti, dove si è arrangiato, ha dormito in strada, assistito dalla mensa di Santa Chiara gestita da Stefania Marinetti (che ha organizzato anche il festival) e da tanti volontari. “Ho perso tutto, il Covid ha cambiato tante cose, ma in Afganistan ancora di più, donne e bambini non possono studiare, non possono uscire di casa, non c’è lavoro. Dobbiamo tutti insieme costruire un mondo di pace”.

Questa è solo una delle tante storie che bisognerebbe conoscere. Infine la Messa e la benedizione del Vescovo Domenico Pompili che nell’omelia cita la saggezza di Salomone, che preferisce la Sapienza “che aiuta a distinguere l’effimero da ciò che resta e predispone all’ascolto delle cose e dell’uomo”.

Francesca Sammarco

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