ROMA – A volte la storia ufficiale non basta a spiegare come sono effettivamente andate le cose e può capitare che un oggetto, una piccola scoperta, un racconto popolare, ci aprano scenari molto diversi da quelli descritti sui manuali e nelle cronache ufficiali. E’ quello che succede spesso a Carlo Franchini, fotografo e appassionato. Di che? Potremmo dire: di tutto ciò che può servire a capire, crescere e quindi studioso di etnografia, antropologia, archeologia e sì, anche storia. Recentemente, in uno dei suoi viaggi frequenti in Etiopia, dove è anche nato, ha ricevuto in un villaggio un dono particolare, uno di quegli oggetti di cui si parlava e che per le sue caratteristiche risulta utile a ricostruire la mentalità di un’epoca, o a sfatare un mito. Si tratta della gavetta metallica di un soldato italiano militante nella seconda campagna d’Africa, nel 1935, un reperto che permette di fare delle riflessioni sul ruolo degli oggetti di uso quotidiano ma anche sul suo proprietario e i suoi pensieri.
Le scritte che ha incise sopra ci dicono molto di lui: per esempio che si chiamava Luigi Pilosio, cognome che fa pensare ad una sua origine veneta. La sua fidanzata era Rita, nome sottolineato ben cinque volte a scapito addirittura della scritta “Duce”, che invece campeggia solitaria sulla superficie metallica lucidata a specchio. L’oggetto ci dice, poi, che Luigi militava nel reparto 63. Tagliamento. Ma, soprattutto, da questo cimelio si deduce che lo spirito di sacrificio cui erano votati i legionari non era poi tanto grande, o almeno non lo era per tutti. Per alcuni era solo il frutto di una mancanza di alternative, una “scelta obbligata”, ossimoro che spiega bene come mai molti giovani si arruolarono come legionari. Purtroppo questo capitolo di storia è molto farraginoso, nel tempo se ne è creata una sorta di leggenda, sono stati girati dei film ma la realtà doveva essere ben altra da quella che raccontava un colonialismo italiano sostenuto dallo spirito patriottico di tanti giovani. I soldati come Luigi combattevano lontano da casa, non sapevano quando e se ci sarebbero tornati. Chissà se quella Rita avrà mai potuto consolare i sogni tormentati del giovane e nostalgico proprietario di quella gavetta, tante volte fosse mai tornato da quella guerra cui non era stato spinto da abnegazione ma probabilmente da senso di dovere o da spirito di sacrificio in nome di un futuro più positivo.
E così la lettura della gavetta di Franchini ci racconta un’altra storia o, quantomeno, un altro aspetto di essa. Il contenitore mostra ancora un’incisione fondamentale per farci un’idea dei pensieri di Luigi. Si tratta della scritta: “A Noi!”. Era, questa, un’espressione ereditata dagli Arditi, reparto d’assalto dell’esercito regio creato nel 1917. Con questo motto essi, considerati uomini audaci, coraggiosi al limite e spericolati rispondevano cameratescamente alla domanda: “A chi sarà riservata la gloria e la gioia?”. Dopo di loro essa era entrata nel gergo militare e si usava ancora nel 1935, ai tempi in cui Fabio era arruolato nella 63esima legione, come grido di incitamento e raccolta, come sprone tra le fila dell’esercito. La preziosa gavetta continua a raccontare, però, e sottolinea come non tutti i soldati fossero così convinti che la guerra fosse uno strumento di affermazione nazionale e, insomma, una soluzione. Uno di questi scettici doveva essere Luigi. Lo fa notare Franchini indicando altre sue parole – amare, ironiche – dopo il motto, che si conclude con un: “Ma non per noi”, che ci appare come un laconico, disilluso commento del giovane soldato al coinvolgimento bellico di quelli come lui.
Luigi probabilmente la pensava così, lo sentiamo quasi sospirare mentre mormora le parole incise su quella gavetta, pensando alla sua morosa lontana e alla sua stessa sorte. E quel sospiro non era solo di dolce nostalgia ma alludeva al destino dei soldati di tutte le guerre che sono combattute da chi non ha alcun interesse a farle a vantaggio di qualcun altro che sui campi di battaglia ci manda gli altri e decide poi le sorti del mondo, i suoi confini e la spartizione del potere secondo un suo esclusivo tornaconto. Lo decide a seconda delle vittorie delle sconfitte riportate, a seconda dei morti e dei vivi, che diventano meri numeri. “Sembrava un banale oggetto – osserva Franchini – e invece ci racconta molto su questi legionari che eravamo abituati a mantenere in un’aura di misticismo eroico”. La povera gavetta esprime romanticamente la nostalgia di un amore pulito e lontano e anche la rassegnata impotenza di un povero soldato costretto a combattere una guerra che non sentiva né sua né giusta ma si doveva comunque combattere come tutte le guerre da quando l’uomo ha deciso che il progresso si costruisse così.
E’ storia vera, questa, scritta dai protagonisti che l’hanno vissuta e non dagli autori dei comunicati ufficiali ma poi ci deve essere qualcuno che la sa leggere e la racconta permettendo delle riflessioni. Essa ci fa fare un salto indietro nel tempo e ci permette di entrare in contatto con il modo di sentire di un soldato, con la sua umanità, i suoi valori e i suoi affetti. Il ruolo di tutti quelli che non si accontentano di verità preconfezionate è quello di andare a scoprire la vita degli umili, veri protagonisti della storia, e di diffonderne i particolari per aiutarci a comprendere. L’umile gavetta del soldato veneto Luigi Pilosio ha gettato un fascio di luce su una generazione di cui non si parla mai se non per luoghi comuni. Per questa bella storia, d’amore e di altri tempi, dobbiamo dire grazie a Carlo Franchini che ne ha capito il valore immenso e ce lo ha fatto conoscere.
Gloria Zarletti
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