PERUGIA – L’associazione nazionale Polizia di Stato ha presentato, in prefettura, una richiesta di medaglia d’oro al merito civile alla memoria per il poliziotto Giuseppe Baratta (1919-1994) per un gesto eroico compiuto ben 77 anni or sono, ma rimasto nell’ombra, nel dimenticatoio. A recuperare e rendere noto il comportamento intrepido del poliziotto è stata la ricerca dello storico Gianfranco Cialini (figlio di un partigiano della formazione “Primo Ciabatti”), che ha messo in luce come l’agente della Pubblica Sicurezza di Perugia, 25 anni appena, all’epoca, nel giugno del 1944 aiutò un gruppo di ebrei a sfuggire al rastrellamento delle forze di occupazione nazifasciste (i paracadutisti della divisione Hermann Goering), facendoli nascondere in un bosco e collaborò, poi, con don Ottavio Posta ed i pescatori del Trasimeno, al trasferimento di gran parte di quel gruppo dall’Isola Maggiore, zona ancora sotto il controllo degli occupanti, sulla sponda sud del Lago, a Sant’Arcangelo di Magione, dove nel frattempo si erano attestati gli anglo-americani, che dalle 15 del 19 giugno si erano acquartierati in villa Coutry (ora villa Valeria), ai quali gli scampati alla barbarie, erano stati affidati dai “buoni”, come venivano definiti gli audaci salvatori dai confinati consegnati agli alleati.
Baratta, originario di Perito, località del Cilento, nel salernitano, figurava in forza, proveniente dal comando di Milano, alla questura di Perugia. Su disposizione del prefetto e federale Armando Rocchi era stato inviato di rinforzo, con altri agenti e con i repubblichini volontari del luogo, sull’Isola Maggiore come guardia di un campo di raccolta degli ebrei che erano stati individuati nel capoluogo umbro, raggruppati nei locali dell’Istituto Magistrale e poi confinati appunto sul Lago, in attesa di essere deportati in Germania. Evidentemente Baratta nutriva profondi sentimenti umani e non condivideva l’animo duro, crudele e feroce della stragrande maggioranza dei soldati hitleriani. Così fece in modo che una trentina di prigionieri (donne ed uomini, bambini e anziani) riuscissero ad allontanarsi dal campo e si nascondessero in un bosco.
La reazione della Wermacht fu immediata e spietata, come da costume. I tedeschi, pur senza prove, ma sospettando il loro coinvolgimento, posero il Baratta ed un giovanissimo del posto, Furio Vannini, spalle al muro del castello Guglielmi davanti al plotone di esecuzione. In virtù della mediazione di due donne ebree, imprigionate pure loro in forza delle leggi razziali, l’esecuzione venne annullata in cambio del ritorno di un numero consistente dei fuggitivi che avevano vissuto alla macchia per tre giorni e tre notti di seguito. Nonostante il rischio corso, il Baratta nelle nottate del 19 e del 20 giugno, collaborò con don Ottavio Posta e quindici pescatori della zona (Danilo e Mariano Agnolini, Roberto Benini, Aldo De Santis, Giovacchino e Tarquinio Fabbroni, Giacomo Grifoni, Gaetano Moretti, Angiolino Perai, Agostino e Tiberio Piazzesi, Amedeo Romizi, Leonello Segantini, Silvio Silvi), per trasferire, caricati su cinque barche, oltre venti prigionieri, sull’altra sponda del Lago e liberarli non soltanto dalla detenzione, ma soprattutto dal trasferimento verso la morte, in Germania.
Il ruolo svolto dal Baratta era rimasto soffocato e sepolto tra le carte polverose degli archivi e nella memoria dei sopravvissuti, mentre l’attività del sacerdote e dei pescatori aveva ricevuto il riconoscimento delle autorità italiane e di quelle israeliane. Soltanto grazie alla indagine del Cialini e di altri ricercatori tra i quali la storica inglese Janet Dethick, la lodevole azione del Baratta è riemersa dalle nebbie del passato. Il poliziotto stesso, schivo e riservato – lo ha specificato il figlio Raffaele – non si era mai vantato, neanche in famiglia, del suo gesto tanto umanitario quanto temerario, sottolineando semplicemente che era stato un comportamento “normale”, “ordinario”. Ligio al detto: “Fai il bene e scordalo”.
Nella lunga e complessa investigazione negli archivi di diverse istituzioni, sono state recuperate le dichiarazioni di testimoni diretti, oculari ed altre documentazioni. Una sopravvissuta, Livia Coen, perugina, rilasciò nel settembre del 1945, una testimonianza spontanea al notaio Giuseppe Briganti di Perugia, in cui raccontava le peripezie sopportate, da lei e dai propri familiari, per sfuggire al rastrellamento di 45 para tedeschi, grazie all’aiuto, tra gli altri, del Baratta. Altrettanto raccontarono Enrichetta Dyasson, ebrea confinata sull’Isola Maggiore ed il pescatore Agostino Piazzesi, uno dei vogatori della faticosa quanto gloriosa traversata lacustre a forza di remi (venti chilometri tra andata e ritorno, al buio e per due notti consecutive e col timore delle perlustrazioni aeree e dei bombardamenti dal cielo e dei cannoneggiamenti da terra da entrambe le fazioni in guerra che si fronteggiavano a nord e a sud del Lago).
L’agente, finita la guerra, venne trasferito a Forlì prima e ad Ancona poi, dove andò in pensione e dove si spense a mezzo secolo di distanza dai fatti dei quali era stato valoroso protagonista. Pochi giorni fa, il 19 giugno, davanti alla targa a ricordo posta sul pontile di Sant’Arcangelo,è stato ricostruito, con una esaustiva relazione del Cianetti, l’eroico comportamento dell’agente. Al tempo stesso è stata annunciata la presentazione della domanda per l’attribuzione della medaglia al merito civile. Ha un senso questo riconoscimento, sia pure tardivo, alla memoria? Sì, anche per sottolineare come, pur nella temperie terribile ed agghiacciante del nazismo, negatore di ogni briciolo di umanità, nell’animo delle persone più ricettive, più sensibili, più avvertite, può sbocciare il fiore della fraternità e della solidarietà umana. Anche a sprezzo della propria vita. E senza aspettarsi null’altro che il “grazie”, una carezza e un abbraccio dai salvati.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, la cerimonia in ricordo dell’agente Giuseppe Baratta
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