PALERMO– A un anno e mezzo dal suo inizio, la pandemia da Covid-19 ha causato in tutto il mondo più di 177 milioni di contagi e circa 3 milioni e 850mila morti. In Europa, Gran Bretagna, Russia e Italia detengono il triste primato di morti per Covid.
Grazie alle drastiche misure di contenimento e all’imponente campagna vaccinale, oggi la diffusione del virus nel nostro Paese è molto diminuita; l’auspicio è quello di lasciarsi alle spalle i vissuti di dolore e il disagio sociale causati dalla pandemia. Ma è prematuro cantare vittoria: infatti si sono diffuse nuove varianti del virus, note ora con le lettere dell’alfabeto greco – così ha deciso l’OMS – per non associare il dato negativo della variante alla nazione dove essa è stata originariamente individuata. Così, dopo le varianti alfa, beta e gamma (inglese, sudafricana e brasiliana), ora preoccupa la delta (indiana), già responsabile di una recrudescenza di contagi nel Regno Unito.
Si ripropone allora la madre di tutte le domande: dove, quando e perché è iniziata la pandemia?
Una ricerca dell’oncologo britannico Angus Dalgleish e del virologo norvegese Birger Sørensen – che sarà pubblicata dal Quarterly Review of Biophysics Discovery, anticipata dal giornale inglese Daily Mail – ripropone con argomentazioni circostanziate l’ipotesi della fuga del coronavirus dall’Istituto di virologia di Wuhan, in Cina, dove sarebbe stato sottoposto ad alcune manipolazioni. Dopo aver studiato per mesi – attraverso articoli ritrovati in database e archivi – gli esperimenti effettuati dal 2002 al 2019 nel laboratorio di Wuhan, i due scienziati sostengono che il coronavirus Sars-Cov-2 “oltre ogni ragionevole dubbio” sia stato creato nel corso di esperimenti chiamati “guadagno di funzione”, o anche mutazioni attivanti, che consistono nell’alterare il genoma di parti del virus per ottenerne di più infettivi, al fine di sperimentare nuove cure; ricerche note anche negli USA, che in passato le hanno finanziate.
Secondo i due studiosi, partendo da un coronavirus prelevato dai pipistrelli, a Wuhan gli scienziati cinesi avrebbero ottenuto la nuova proteina “spike” che ha trasformato il virus originario nel Sars-Cov-2 responsabile della pandemia, virus che, sottolineano i ricercatori, non ha “antenati naturali credibili”. La catena di quattro amminoacidi con carica positiva nella “spike” del Sars-Cov-2, tramite cui il virus si lega in modo così efficace alle cellule umane, sarebbe la prova schiacciante della loro tesi: in natura infatti è assai raro trovare anche solo tre amminoacidi positivi legati insieme, visto che tendono a respingersi. Che un virus ne metta spontaneamente insieme ben quattro, sostengono Dalgleish e Sørensen. è davvero “decisamente improbabile”.
Non è comunque del tutto ancora esclusa la tesi dello spillover: salto di specie di un coronavirus dai pipistrelli, suoi incubatori, all’uomo.
Nell’ipotesi dello spillover pipistrello-uomo, studiosi del Politecnico di Milano, dell’Università della California e della Mas University della Nuova Zelanda si sono chiesti quali zone del pianeta sarebbero in futuro a maggior rischio di eventuali nuovi focolai epidemici. A tal proposito, sono stati studiati con satelliti 30 milioni di kmq di territori tra Asia, Est Europa, Africa del nord e Australia, tracciando la distribuzione dei pipistrelli “a ferro di cavallo” o Rhinolophus, potenziali diffusori di coronavirus.
Sovrapponendo mappe geografiche, satellitari e zoologiche, gli scienziati delle tre Università hanno pubblicato su “Nature Food” un elenco dettagliato delle zone di diffusione potenziale dei coronavirus, zone che presentano tre fattori di rischio ambientale: deforestazione, allevamenti intensivi, elevata quantità di insediamenti umani. E’ noto infatti da decenni il rischio di epidemie virali là dove non ci sono più filtri tra animali selvatici e attività umane. I territori più a rischio sono stati localizzati in Cina, Filippine, India, Australia nord-occidentale e in una parte della Spagna: territori già fortemente antropizzati e con progetti di deforestazione per far spazio a campi coltivati.
Ecco le considerazioni della professoressa Maria Cristina Rulli, docente di Sicurezza idrica e Alimentare del Politecnico di Milano: “Il nostro lavoro è stato quello di cercare i luoghi con le caratteristiche più a rischio, in cui si potrebbero verificare eventuali spillover – il cosiddetto salto di specie – di altri coronavirus tipici dei pipistrelli verso l’uomo. Fattori di rischio sono anche gli allevamenti intensivi, che ospitano animali a volte immunodepressi per la tipologia di allevamento. Animali che possono quindi essere essi stessi infettati da eventuali patogeni e possono fungere da intermediari nella trasmissione del virus dall’ospite – come il pipistrello per il coronavirus – e l’uomo. Con questo tipo di dati sono possibili due azioni: da un lato guidare le autorità a un maggiore controllo dei punti pericolosi e introdurre politiche più sostenibili, con un migliore equilibrio tra le attività umane e le foreste, dall’altro agire per tempo nelle zone con un rischio ancora basso, ma in cui i fattori di pericolo potrebbero presumibilmente aumentare”.
Che preservare gli habitat naturali, arrestare la deforestazione e ridurre, se non abolire, gli allevamenti intensivi, sia una necessità per gli ecosistemi lo predicano da anni gli scienziati ambientalisti.
Che nei laboratori – specie nei Paesi dove non c’è libertà per gli scienziati e nessuna possibilità di controllo – virus, genoma e DNA debbano essere maneggiati col principio di precauzione, con somma attenzione e con la massima trasparenza, lo chiedono da tempo scienziati e giornalisti.
Ora sappiamo con certezza che si tratta di imperativi categorici, se si vogliono evitare futuri disastri.
Maria D’Asaro
Complimenti, Maria: articolo esaustivo.