RIETI – “Africa mediata: Il ruolo dell’informazione e della deontologia nel racconto dell’Africa e dei suoi protagonisti” è il titolo del corso della formazione obbligatoria per i giornalisti iscritti all’albo, organizzato dall’associazione ‘Carta di Roma’. Un appuntamento che ha illuminato sull’esistenza di due Afriche: il grande continente, quello costituito da 54 Paesi, con tecnologia e ricchezza (non solo capanne) e l’Africa raccontata dai media, completamente diversa, che diventa “Africa mediata”. Del resto, quanti bambini sono stati cresciuti con la famosa frase “se non ubbidisci chiamo l’uomo nero?”: una frase che resta dentro. Bisogna usare i termini giusti, non quelli dettati dalla politica, “diffondete questo messaggio e mettetelo in pratica nel vostro lavoro, soprattutto nei titoli, anche se sappiamo che non è il cronista a titolare, ma le redazioni”. Questo l’invito delle relatrici.
“Le parole sono importanti” diceva Nanni Moretti nel film “Palombella rossa”, rivolgendosi proprio ai giornalisti. I termini sbarchi, invasione, reati, conflitto, degrado, emergenza umanitaria vengono trasformati in notizie creando un “frame” emergenziale e securitario, creando un clima di paura e minaccia, con una trasformazione discorsiva, che associa il migrante alla sicurezza. Dal 2020, con il Covid 19, la situazione è cambiata ed è arrivato il macro frame, quello cioè in cui il messaggio che si trasmette è che la migrazione porta la malattia. I media sono come agenzie di socializzazione, in cui anche le fiction svolgono un ruolo importante. Come vengono descritte le migrazioni, le loro cause, l’economia del Paese, cosa manca nella descrizione di questo continente? Carta di Roma ha seguito alcuni focus group su ragazzi delle elementari e delle medie, chiedendo ‘cosa manca secondo voi e cosa è invece troppo presente come stereotipo?”.
Ai ragazzi arrivano le immagini di povertà, spesso spettacolarizzata, animali, paesaggi, sfruttamento, manca la rappresentazione dei contesti urbani: l’Africa arretrata è quella che viene maggiormente rappresentata, soprattutto nei Telegiornali, in cui si parla di Africa solo in relazione a migrazione, razzismo, discriminazione. Mancano le informazioni sulla religione, cultura, sport, vita sociale, generalizzando un intero continente, di cui si dà una narrazione parziale, con uno sguardo eurocentrico. “Quanta e quale Africa c’è nei media italiani?” Marta Bove dell’organizzazione Amref (in cui la maggior parte degli operatori è africana) cura la comunicazione e cerca di ribaltare i luoghi comuni, come la strumentalizzazione della povertà “di cui sono responsabili anche le stesse Ong”. Amref lavora sullo sviluppo e non sull’emergenza e gli spot comunicativi mostrano donne, uomini, bambini sorridenti, dignitosi, che alla fine dello spot, dicono “Non aiutateci per carità”. Non per carità dunque, ma perché è giusto e necessario, per un mondo in cui ci siano pari opportunità, in cui ogni persona può fare la differenza.
Ada Ugo Abara è nata a Benin City, si definisce una afroitaliana disillusa, ma non ancora arrendevole. E’ cresciuta in Italia, ha una laurea Magistrale in Cooperazione, Sviluppo e Innovazione nell’Economia Globale, è Consulente e Project Manager nell’ambito della cooperazione internazionale, con coinvolgimento delle diaspore e delle nuove generazioni italiane, è presidente dell’associazione Arising Africans (www.arisingafricans.it), podcaster: D-Tech Podcast (www.ditech4good.com). Ada evidenzia come l’Africa non sia un unico grande paese disastrato, da compatire o da salvare, con guerre, carestia, morte, africani sempre divisi tra disperati e criminali, con una narrazione unica, mancanza di expertise, valore solo se si raggiunge l’eccellenza in qualche campo, addirittura Irriconoscibile agli occhi degli stessi africani e afrodiscendenti e pone la domanda chiave: dov’è la molteplicità di sguardi? Non si cerca la voce degli afrodiscendenti o delle persone nel Continente, lo spazio è pressoché inesistente quando si tratta di parlare delle iniziative degli africani e afrodiscendenti in Italia, nessuna riflessione sugli effetti nei giovai che nascono e/o crescono in Italia, che sono di fatto italiani culturalmente, compagni di classe, ma che, ad esempio non possono partecipare all’Erasmus o giocare in nazionale.
Il ruolo delle donne è importante e Ada propone una nuova narrazione con il cortometraggio che ha partecipato alla 75. Mostra del Cinema di Venezia “Io sono Rosa Parks” (disponibile su RaiPlay), del Movimento Italiani Senza Cittadinanza, Angelika Vision Srl, Arising Africans e con “Fading”, in cui si pone l’obiettivo di stimolare una pluralità di riflessioni che possano lasciare spazio per dibattiti e approfondimenti. È un lavoro corale che ha visto la luce grazie all’unione di competenze di giovani donne e uomini afrodiscendenti e autoctoni. Lo scopo è di porre l’accento sul ‘razzismo sistemico’ di coloro che lo vivono quotidianamente a causa di micro aggressioni o di una scorretta percezione collettiva dei corpi neri, trasmessa di generazione in generazione. Arising Africans è un progetto nato nel 2015, un’associazione di promozione sociale, per riunire i giovani afro discendenti / afroitaliani e italiani e promuovere una nuova azione congiunta. Una piattaforma con cui decostruire gli stereotipi sull’Africa e sugli Africani, veicolati quotidianamente dai media italiani.
“Vogliamo combattere il razzismo dilagante in modo puntuale attraverso un servizio rivolto a chi ne è vittima; vogliamo formare i giovani nelle scuole a guardare con sospetto stereotipi e pregiudizi. Vogliamo riappropriarci della nostra narrazione e dei nostri diritti. Siamo afroitaliani, in noi convivono la cultura italiana e quella africana, rappresentiamo entrambi i mondi senza nulla togliere all’uno o all’altro. In quanto italiani, lottiamo quotidianamente contro ogni forma di discriminazione, sosteniamo una cittadinanza più inclusiva e ci proponiamo come attori sociali; in quanto africani invece, è nostro dovere far conoscere la nostra cultura, le nostre lingue, tradizioni, la nostra società nel complesso. In quanto afrodiscendenti non vogliamo essere solamente degli spettatori, ma protagonisti della nostra narrazione”.
Voci da ascoltare, cercando fonti e prospettive diverse da quelle comode, riflettere sulle immagini utilizzate, dar spazio alle iniziative promosse dalle associazioni, insistere sulla titolazione, parlare della riforma della cittadinanza, ricordarsi che le belle notizie non fanno mai male. Ultimo, ma non ultimo: la nostra informazione non deve avere condizionamenti, disparità e dimenticanze, soprattutto tenendo conto che in molti Paesi africani non c’è libertà di stampa (il conflitto etiope è praticamente oscurato), il ruolo di Reporter sans Frontières è importante, come sono importanti le reti globali, il cinema emergente nigeriano, perché “Black stories matter”.
Francesca Sammarco
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