RIETI – Il libro di Ernesto Ferrero “Napoleone in venti parole” offre lo spunto per ricordare l’imperatore scomparso 200 anni fa. Lo scrittore Ferrero è uno studioso del famoso condottiero, statista ma anche accentratore e sanguinario. Chi scrive non può negare la passione per Napoleone Bonaparte. Per questa figura tanto grande quanto controversa in cui si ritrova il profilo della sua persona perfettamente descritta da Ferrero. Il 5 maggio di 200 anni fa è scomparso Napoleone e sono duecento anni che si parla di lui. Ernesto Ferrero in “N.” , premio Strega 2000, ha raccontato l’età dell’impero, oggi prova l’impossibile, a riassumere cioè in venti parole colui che sentiva in sé l’infinito. Parte dal momento zero del mito. Dalla sua presa di coscienza.
“Sin dalla prima campagna d’Italia – osserva l’autore – cioè da quando lui ha la percezione esatta delle proprie potenzialità, è Napoleone stesso a rimanere colpito da se stesso. Alla verifica dei fatti scopre che nulla gli è impossibile. Arriva a duecento km da Vienna. Scopre che è diventato più forte del Direttorio, che si tratta solo di aspettare il momento buono e il potere è a portata di mano. E da quel momento, da quando arriva a Milano, costruisce scientificamente il proprio mito, tra l’altro pubblicando due giornali che ne esaltano le imprese. Fino a diventare un grandissimo manipolatore dell’opinione pubblica, un inventore del marketing di se stesso: migliaia di statuette, migliaia di immagini, oltre ai grandi ritratti del David. Tramite i suoi informatori anticipa addirittura i sondaggi, travestito va in giro per i mercati per catturare gli umori popolari”.
Ma ciò che lo contraddistingue è la sua innata capacità di governo, l’intuire ciò che il futuro vuole. E’ la sua genialità. Ferrero aggiunge ancora: “Per questa sua fulminea e acutissima conoscenza dell’animo umano, che è anche difficile da spiegare in un 27enne, come se avesse letto tutti i possibili classici, capisce subito che gli adulti hanno bisogno di favole, capisce il ‘potere stupefacente delle parole sugli uomini’. Utilizza l’arte, con cui segnerà i momenti epici della sua vicenda. Insomma, crea il mito dell’eroe invincibile, che è esattamente quello di cui il ‘mercato’ aveva bisogno, senza saperlo, come sempre accade per i grandi innovatori, i grandi inventori. E lo costruisce, come lui stesso dice esplicitamente, ‘con il buon governo’. Teorico della meritocrazia, apre le carriere ai figli del popolo perché sostiene che il talento non è ereditario”. E a proposito di popolo, c’è in effetti da chiedersi se Napoleone non sia stato anche un prototipo dei leader “populisti” che negli anni seguiranno. “In un certo senso la risposta è sì – concorda Ferrero -. Basta pensare a quando si appella direttamente al popolo francese, al ricorso ai plebisciti”. Sentiva con sé, senza mediazioni parlamentari, “il popolo, i contadini, e l’esercito, ma fino agli ufficiali”, non i parigini “che considerava inaffidabili”.
Tuttavia sarebbe riduttivo inchiodarlo al cliché del demagogo, c’è da descrivere anzi il suo “buon governo”. “Sin dal Consolato, il generale si rivela anche uno straordinario amministratore, un gestore della complessità: è l’uomo del Codice Civile, riforma l’amministrazione portando a far pagare le tasse chi prima non le pagava, ha l’ossessione del budget (‘neanche un franco va sprecato’), riforma la giustizia. Considerandosi un bravo matematico, un uomo che lavora sui numeri, sui fatti certi, crea l’istituto di statistica. Tutti i giorni fa una specie di fact checking molto preciso e i suoi ragionamenti e le sue decisioni sono sempre fondate sui documenti. È un grandissimo ministro della cultura, fa del Louvre il primo vero museo nazionale e usa la cultura come arma politica come all’incontro di Erfurt, quando stupisce i sovrani d’Europa convenuti per ridisegnare gli assetti del continente, portando sette serate di grande teatro classico francese. Sbalordisce Goethe, che rimarrà impressionato da Napoleone anche dopo la sua caduta: ‘È come se fosse colpito da una continua illuminazione’, scriverà. Questa energia costruttiva stupisce i contemporanei ed è parte integrante della leggenda: questo non è solo un generale che vince, ma uno che fa le cose e che riesce a trasformare quel caos di Francia uscita dalla Rivoluzione, in uno Stato moderno”.
Va ricordata anche la sua grande passione per la lettura, per i libri. Costruttore di biblioteche, addirittura se ne era fatta costruire una ‘viaggiante’ per libri di speciale formato. “Il libro era alla base del suo sistema operativo e tutte le settimane si informava sulle novità, con un archivista molto bravo che gli preparava schede precise. Poteva tutto perché sapeva tutto, ma non per scienza infusa, ma perché studiava, aiutato anche da una memoria prodigiosa. Uno dei lasciti su cui riflettere: il valore fondativo della conoscenza, della competenza e della professionalità. Ecco, lui è stato prima di tutto un grandissimo professionista e un grandissimo lavoratore, con un risvolto negativo: poiché non si fidava di nessuno ed era perfettamente consapevole dell’abisso che c’era tra sé e gli altri, pensava di poter reggere l’Impero con una dozzina di segretari e due o tre ministri. Questo eccesso di accentramento con cui si occupava dei massimi sistemi, ma anche della pratica dell’ultima vedova della Bretagna, lo ha perduto. Specialmente in Russia dove gestire 600mila uomini di 30 nazionalità su un territorio sconfinato è diventato impossibile”.
Certo è difficile immaginarlo alle prese con l’impossibile… “Lui ha sempre sfidato i limiti e costretto tutti i sovrani europei a misurarsi con se stessi, a credere in se stessi, a crescere. La Russia moderna nasce da questa immane sfida. Affermava che ‘l’impossibile è l’alibi dei poltroni’ e si è sempre scagliato oltre l’ostacolo. Poi certo, una troppo esaltata autoconsapevolezza diventa megalomania e induce all’errore. Diventa difficile fermarsi. Come quando abbandonò ogni ipotesi di mediazione con Metternich per un sistemazione dell’Europa perché, secondo lui, sarebbe stata interpretata come una forma di debolezza, e lo avrebbe trasformato da ‘predatore’ a ‘predato’. Quindi, fatto presto a pezzi. Forse come politico questo è stato il suo più grande difetto: credere che tutto si risolva con una battaglia vinta”. Costretto ad essere sempre trionfante sul campo era convinto che i sovrani potevano anche perdere perché tanto resteranno sempre sul trono, per diritto divino. “Poteva soltanto vincere, la sua vicenda ci ricorda un po’ quella di certe bolle finanziarie che funzionano sin quando la crescita è assicurata. Altrimenti implodono. Era condannato a vincere e questo meccanismo è diventato una trappola”.
“Lui aveva dei circuiti neuronali di straordinaria rapidità, aveva un’elaborazione di pensiero fulmineo, e riusciva a elaborare – diremmo oggi – una grandissima quantità di dati in maniera rapidissima e molto lucida. Capiva immediatamente qual era il contesto in cui si muoveva e come agire, e lo faceva con cinismo, durezza e sicurezza. Senza alcun dubbio, come quando si trattava di tirare qualche cannonata sulla folla”. E se la sua mente era il software, l’hardware era l’esercito. “Inventa un modo di fare la guerra inedito, spostamenti velocissimi, tecniche di guerriglia. Fino a lui la guerra era una faccenda molto rituale, un po’ teatrale, ci si schierava in file contrapposte, si cominciava a sparare, i fucili erano imprecisi, qualche colpo andava a segno, si combatteva per qualche ora, staticamente, poi alla sera si decideva chi si ritirava e chi no. Con Napoleone cambia tutto, la battaglia si vince con l’impeto dei guerriglieri, di soldati assatanati perché non hanno niente, sono malvestiti e disperati. E una volta vinta la battaglia, non ci si ferma, si riparte a gran velocità, si piomba laddove il nemico non ti aspetta. Un’imprevedibilità che sconvolge, impossibile da attuare con un esercito più consapevole di sé”.
“Lui era un repubblicano che apprezzava la libertà ma riteneva giusto commissariarla per il breve periodo che gli serviva per agire, per rifondare lo Stato ideale che aveva in mente. Naturalmente sappiamo che quando un leader carismatico sceglie questa strada, poi tornare indietro è molto difficile. Ma lui si considerava una specie di padre che doveva gestire dei figli minori non ancora in grado di farcela da soli”. Un paternalismo che sfocia nella repressione della libertà di stampa, per esempio, e “che è motivato dalla volontà di ricostruire sulle macerie della Rivoluzione francese, un’impresa improba, come anche Chateaubriand gli riconosce nel suo straordinario Memorie d’oltretomba”. Inevitabilmente, si finisce anche a parlare delle critiche all’imperatore da parte della cosiddetta “cancel culture”, che Ferrero derubrica come “una delle tante idiozie contemporanee. È noto che fosse misogino e schiavista, come tutta l’epoca lo era, serenamente”. Insomma, “non si può ragionare di storia con gli occhi e i criteri etici dell’oggi”.
Eppure c’è qualcosa di insuperabile anche per lo scrittore torinese. Con Napoleone, come far convivere lo statista geniale con il guerrafondaio che fa un milione di morti, questa aggressività sanguinaria è difficile poi da conciliare con tutto il resto. Ma lui nasce soldato, ed è sui campi di battaglia che pensa di risolvere tutto. “A Waterloo la mania dell’accentramento diviene momento fatale, e si paga tragicamente l’abitudine dei suoi capi di stato maggiore a obbedire agli ordini, a non fare assolutamente nulla da soli”. In questo aspetto, Napoleone, inventore della modernità, non aveva capito il valore dell’autonomia decisionale, ma non si poteva chiedere anche di pensare uno dei principi cardine, per esempio, l’importanza della Rete.
Stefania Saccone
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