PALERMO – “Occhio per occhio, dente per dente”: questa la legge del re babilonese Hammurabi nel XVIII secolo a.C. Ancora oggi Cina, Bielorussia, India, Corea del Nord, Iran, Arabia Saudita, Giappone, Stati Uniti d’America – 58 Stati in totale – si rifanno al codice di Hammurabi, comminando la pena di morte per l’omicidio e altri reati. Negli USA, dove la pena capitale è ammessa a livello federale e può essere inflitta in tutto il territorio se contemplata dai Parlamenti dei singoli Stati, dal 1977 al 2003 ci sono state 843 condanne a morte: 677 con iniezione letale, 150 con sedia elettrica, 11 con camera a gas, 3 per impiccagione, 2 con fucilazione.
Secondo il Death Penalty Information Center, sino al 24 marzo scorso erano venticinque gli Stati che applicavano la pena capitale; in tre (California, Oregon e Pennsylvania) è in vigore una moratoria; ventidue, più il District of Columbia con la capitale Washington, quelli che l’hanno cancellata. Tra questi ultimi, che passano quindi a ventitré, dal 25 marzo scorso c’è anche la Virginia, il primo tra gli Stati del sud ad averla abolita. Seconda solo al Texas che detiene il primato di imputati giustiziati, in Virginia dal 1976 sono state eseguite 114 esecuzioni. Già da dieci anni però nei suoi tribunali non sono state più comminate condanne a morte, mentre nelle carceri locali erano rimasti solo due condannati alla massima pena.
L’abolizione della pena capitale, approvata nelle scorse settimane dalla Camera e dal Senato della Virginia, è stata firmata dal governatore democratico Ralph Northam, che in passato si era dichiarato favorevole alla pena di morte. A fargli cambiare idea la constatazione che la pena capitale colpiva soprattutto i neri, i poveri e le minoranze etniche, le categorie cioè che non hanno soldi per difendersi in tribunale: “Firmare questa legge è la cosa giusta da fare. Non c’è posto per la pena di morte nel nostro Stato, nel sud e nel Paese” ha dichiarato ora il governatore, che ha definitivamente chiuso la “camera della morte” nel penitenziario di Greensville.
Negli Stati Uniti, soprattutto dopo la pubblicazione nell’aprile del 2002 del Rapporto Ryan, il sostegno dell’opinione pubblica alla pena di morte è un po’ calato. Dopo il 2004, la Corte Suprema ha vietato l’applicazione della massima condanna a minorenni e ritardati mentali, mentre il Congresso ha limitato il numero di reati punibili con tale pena; di conseguenza, è diminuito anche il numero complessivo di esecuzioni e di condanne.
Il cambiamento di rotta si deve in primo luogo agli scandali seguiti all’utilizzo dei test del DNA, che hanno provato l’esistenza di un alto numero di persone innocenti tra i condannati a morte, per molti dei quali la condanna è stata eseguita. In secondo luogo, alla consapevolezza della pregiudiziale razziale legata alla pena capitale: i risultati di una ricerca indipendente condotta nel 2003 dall’Università del Maryland mostrano come gli afroamericani, che rappresentano circa il 12% dell’intera popolazione statunitense, costituiscano poi il 42% dei detenuti in attesa dell’esecuzione capitale; inoltre, mentre le vittime degli omicidi sono bianche e nere in parti quasi uguali, dal 1977 i condannati giustiziati sono stati, nell’82% dei casi, i responsabili dell’uccisione di un bianco.
La presenza della discriminazione razziale nei tribunali, riscontrata in molti stati americani, proverebbe quindi la significativa correlazione tra la razza dell’imputato e la decisione finale della giuria.
In terzo luogo, anche se non è facile a credersi, pare accertato che, conti alla mano, sia molto più costoso condannare a morte e uccidere un imputato che mantenerlo all’ergastolo.
Infine, nonostante molti siano ancora convinti del valore deterrente della massima pena, si è visto che non c’è affatto una correlazione tra la diminuzione del tasso di criminalità e l’applicazione della pena capitale. Ma questo lo sapeva bene già nel 1764 Cesare Beccaria che, nel saggio Dei delitti e delle pene, affermava con certezza che storicamente la pena capitale non è mai stata un deterrente per impedire il crimine; per questo e per altre ragioni Beccaria deplorava gli Stati che “per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinano un pubblico assassinio”. Evidentemente negli Usa – e negli altri 57 Stati del mondo che mantengono la pena di morte – non si è riflettuto abbastanza sulle argomentazioni del giurista italiano.
Oggi, nella festa della Resurrezione di un Condannato a morte, avvenuta circa 2000 anni fa in Palestina dopo un processo assai discutibile, ricordiamo la lunga e controversa vicenda giudiziaria di un cittadino statunitense di origini italiane, Derek Rocco Barnabei, giustiziato proprio a Greensville in Virginia, anche lui a 33 anni, il 14 settembre del 2000, nonostante si proclamasse disperatamente non responsabile dell’assassinio di una ragazza, Sarah. Per lui chiesero inutilmente la grazia anche il Parlamento europeo e l’allora papa Giovanni Paolo II. Non sapremo mai se sia stato Rocco il colpevole di quella morte. Rimane il dolore immenso dei familiari di Sarah, a cui si è aggiunto l’inutile strazio della madre del condannato. Il Comune di Palermo, già nel 1997, ha voluto tributare a Rocco la cittadinanza onoraria come “simbolo della lotta alla pena di morte”.
Maria D’Asaro
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