PERUGIA – Mentre scorro il titolo (“Non canterò più”) mi tornano in mente, e risuonano nitide, le parole di una delle sue canzoni più famose che ai tempi dei miei sedici anni – parlo del Giurassico – conoscevo a memoria e canticchiavo: “Tous les garçon et le filles de mon age…”, divenute una sorta di colonna sonora dei liceali dell’epoca. E non solo per loro: quell’album ha venduto, in tutti i continenti, due milioni di dischi. Lei appariva non soltanto bella, slanciata, con capelli lunghi sulle spalle ed una frangia sulla fronte fino agli occhi grandi; non solo aveva 18 anni appena; non solamente conquistava per il fascino che emanava, ad un tempo semplice e irraggiungibile, un sogno, dunque, ma scriveva e interpretava pure motivi che si attagliavano perfettamente alla concezione del mondo e del modo di vivere dei ragazzi di quei giorni: “Come dirti addio”, “L’amore se ne va”, “La casa dove sono cresciuto”, “E’ all’amore che penso”, “L’età dell’amore”…
Miscelava sapientemente la voglia di vivere, il desiderio di esperienze nuove, con lo “slancio vitale”, con i sogni, con le gioie. ma anche con la malinconia e con la tristezza di ragazzi in formazione, inquieti, ribelli, alla ricerca di se stessi. Scoprire che, per un tumore alla faringe, Françoise Madeleine Hardy, 77 anni (nata a Parigi il 17 gennaio 1944) non potrà più esibirsi, commuove, tocca, ferisce anzi, nel profondo. Come se la malattia avesse colpito una cara compagna di liceo, una non dimenticata “fiamma“ giovanile, un pezzo significativo dell’esistenza di ciascuno di noi, insomma. In quegli anni le canzoni – diversamente da oggi che si possono sentire pure mentre si passeggia o si corre ed in ogni momento – si ascoltavano alla radio, in televisione (in bianco e nero), sui grammofono. I motivi si ballavano non solamente nella più seriosa ed elegante “Sala degli specchi” del Teatro, ma più di frequente nei saloni di qualche abitazione o più spesso ancora in cantine o in garage, ripuliti in tutta fretta e dov’era sufficiente, come arredamento, un tavolino. un giradischi, qualche vinile e sedie impagliate, sulle quali nessuno si sedeva, se non per limonare. Dal soffitto pendeva una ragnatela? Pazienza. Di schizzinosi neanche l’ombra.
Nell’istante in cui si provava a rubare un bacio, bastava un cenno, uno sguardo ed un amici spegneva prontamente l’interruttore della luce… La privacy – termine ai tempi sconosciuto – era salva! Nascevano, di tanto in tanto, in questi ambienti senza pretese e sulle note delle canzoni, talvolta poetiche, della Hardy (e non solo sue, per la verità), piccoli e grandi amori. Flirt di una estate o storie di più lungo respiro. A volte nel negozio di un commerciante disponibile e generoso, sulla via che portava alla piazza grande, i ragazzi potevano ascoltare, in prima assoluta, soprattutto nei pomeriggi d’estate, gli ultimi pezzi incisi. Françoise, con la sua voce delicata e dolce, pizzicava le corde dell’anima. E non solo quelle dei giovani. Se è vero – e lo è – che persino poeti di età matura come Jacques Prevert (“Une plante verte”) e Manuel Vasquez Montalbàn (“Francoise Hardy”) le dedicarono, a metà degli anni Sessanta, i loro versi. “Come dirti addio” poteva squassare il cuore per il tramonto di una storia; “L’amore se ne va” scandiva le ore di un altro “filarino” in fase di esaurimento, come il collasso di una Supernova.
Eppure quella stagione restava, fuor di dubbio, per ragazzi o ragazze che fossero, “L’età dell’amore”. Che poteva sbocciare all’improvviso, con la violenza di un temporale estivo. Il periodo dei palpiti, dei fremiti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle passioni acerbe ed ardenti, quanto – molto spesso – passeggere. Quali bellissime nuvole, dalle forme fantastiche e mutevoli, che il vento disperde e trascina via nel cielo azzurro, per far posto ad altre, ma che ti rimangono dentro, che non si dissipano e non si sfaldano nel fondo della memoria.
Hardy ha rilasciato l’intervista del suo addio definitivo alle esibizioni a “Le Figaro” ed in un passaggio ha aggiunto una frase che ce la fa sentire, se possibile, ancora più vicina, una compagna di viaggio su questa terra su cui tutti siamo ospiti temporanei: “Non ho paura di morire, ma di soffrire”. Il segno del tempo implacabile che avanza, che divora i corpi (ma non i sentimenti) e che muta orizzonti, idee, pensieri. Una frase di questo contenuto Françoise, ai tempi della primavera giovanile, non solo non l’avrebbe scritta, ma non l’avrebbe neppure lontanamente pensata. Allora. Come scrive Prevert “i ragazzi che si amano sono altrove”: “Molto più lontano della notte, molto più in alto del giorno, nell’abbagliante splendore del loro primo amore”.
Rincuora, invece, il particolare che la malattia della cantautrice, attrice e scrittrice (tra i suoi lavori il romanzo “L’amore folle”; alcuni racconti autobiografici – come “Io canto, dunque sono”, “Note segrete”, “La disperazione delle scimmie“; alcuni testi sull’astrologia, il suo personalissimo svago) sia servita a ricucire le cicatrici di un amore, apparso dal di fuori, finito, di più: morto e sepolto. Jacques Dutronc, cantante e compositore, il marito con il quale ha avuto, nel 1973, un figlio (Thomas, musicista pure lui) e dal quale si era separata nella seconda metà degli anni Ottanta, è riapparso al suo fianco. Alla compagna con la quale conviveva in Corsica, Jacques ha confessato, con schietta onestà e deciso coraggio (non riporto le parole esatte, che non conosco, ma il concetto è quello ): “Françoise è la donna della mia vita. La sua malattia mi ha sconvolto. Torno da lei”. Ah, l’amour.
Si assopisce, sembra sparire come inghiottito in un terreno carsico e poi, rieccolo riemergere prepotente e sfacciato, impudente e vincente, in tutto il suo abbacinante fulgore. Magari in forme diverse: forse con meno passione, con slanci più contenuti, e tuttavia con lacci più solidi e maturi, e certo di non minore vigore. A Françoise (77 anni) e Jacques (78) auguri di una vita lunga e serena. Che sia simile a quella dei teneri, fragili, anziani sposi del mito, Filemone e Bauci. Ovidio narra che si spensero insieme, molto avanti negli anni e che Giove, grato per la loro disinteressata ospitalità, li trasformò, rispettivamente, in una quercia ed in un tiglio. Spuntati dal terreno uno accanto all’altra. Per l’eternità.
Elio Clero Bertoldi
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