SCURCOLA MARSICANA (L’Aquila)– Italiani, fucilati da altri italiani. Tra il 22 e 23 gennaio 1861 si consumò uno tra i più efferati eccidi della nostra storia: a Scurcola Marsicana i soldati piemontesi giustiziarono 89 soldati borbonici. Un episodio poco conosciuto, come poco e mal conosciuto è ancora oggi il brigantaggio postunitario. Gli stessi abruzzesi non conoscono bene questo periodo storico, le testimonianze vennero messe a tacere, offuscate fin dal primo momento, la popolazione fu indotta al silenzio dalle autorità piemontesi (le prime ad occultare l’accaduto) e anche i registri parrocchiali, sempre preziosa fonte di informazioni storiche e sociali di un territorio, non annotarono decessi in quei due giorni e non si sa dove siano state sepolte le vittime, che non hanno mai ricevuto il decoro e il rispetto che, in ogni caso, si riserva agli sconfitti.
L’eccidio avvenne davanti al vecchio edificio in pietra che ospita oggi la Confraternita del Suffragio (dietro al portale antico si trova la cappella delle ‘Anime Sante’). In quel periodo lo scontro tra filo-borbonici e filo-piemontesi era aspro anche nella Marsica. Si stava preparando l’Unità d’Italia, con Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia, contro Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, incoronato nel maggio 1859. A Tagliacozzo pochi giorni prima c’era stato un violento scontro tra le truppe piemontesi guidate dal maggiore Annibale Ferrero e quelle borboniche del generale Francesco Saverio Luvera. I piemontesi furono messi in fuga e costretti a ripiegare fino ad Avezzano, perdendo 23 uomini. Nei giorni seguenti alcuni briganti provenienti dalle zone vicine si unirono ai borbonici, i piemontesi collocarono due compagnie di fanteria a Magliano de’ Marsi e una a Scurcola. Nel pomeriggio del 22 gennaio 1861 le truppe borboniche, guidate da Giacomo Giorgi, si prepararono ad attaccare i nemici a Scurcola, ma i piemontesi resistettero, grazie anche all’intervento delle compagnie di Avezzano e Magliano, che circondarono il paese e i borbonici. Una parte fuggì, altri cercarono riparo nelle abitazioni e nelle stalle di Scurcola.
Il maggiore piemontese Antonio Delitala emanò un bando con il quale, sotto pena di morte, intimò a tutti gli abitanti di Scurcola di denunciare i borbonici e i briganti nascosti nelle case, nelle stalle o nei pagliai: così accadde che 366 prigionieri borbonici furono rinchiusi nella chiesa delle Anime Sante, dove si consumò l’eccidio: uno per volta i borbonici vennero portati fuori e giustiziati. A mezzogiorno arrivò da Avezzano l’ordine di sospensione immediata delle fucilazioni. Gli altri prigionieri furono destinati ad Avezzano e, successivamente, a L’Aquila per essere processati, ma la loro fine non è chiara e potrebbero non essere mai arrivati a processo.
Fausto Vincenzo Colucci racconta l’episodio nel libro “La strage di Scurcola Marsicana”, soffermandosi soprattutto sull’aspetto sociale e il comportamento della popolazione, dato che gli aspetti militari erano chiari. La fortezza di Gaeta si arrese il 13 febbraio, quella di Messina il 12 marzo, l’ultima roccaforte fu Civitella del Tronto (da visitare assolutamente) che si arrese il 21 marzo, pochi giorni dopo la proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861). Nel 1866 venne annessa Venezia e nel 1870 Roma. Intanto però la ribellione continuava e con essa la repressione contro i nostalgici sanfedisti. L’8 dicembre 1861 si combatté la battaglia del Luppa, sempre in territorio marsicano, dove venne catturato il generale Josè Borgès a cui è stata dedicata una lapide commemorativa.
Quella che inizialmente fu una guerra di bande a sostegno delle truppe regolari a Gaeta, con lo scopo anche di sollevare le masse, pian piano si trasformò e si frazionò in gruppi di 10- 15 individui. Il generale La Marmora sottovalutò questa ribellione che iniziava a includere le masse contadine ridotte alla fame non solo per le tasse, ma per l’introduzione della leva obbligatoria che durava anni e le terre non più concesse, come invece era uso nel Regno borbonico. Allevatori e contadini si unirono alla lotta che durò diversi anni. Più che briganti, in questa fase dovrebbero definirsi insorgenti. La legge Pica seguiva quanto previsto dal codice penale militare e molte furono le esecuzioni non solo di briganti, ma anche di religiosi, donne e bambini, ritenuti ‘manutengoli’, cioè protettori dei ribelli, se trovati nelle campagne o nei boschi in possesso di una doppia razione di cibo, indumenti o armi senza giustificazione.
Ci furono anche brigantesse, chiamate spregiudicatamente “drude”, qualcuna forse costretta, ma altre no, come Michelina Di Cesare, compagna di Francesco Guerra. Per lei Eugenio Bennato scrisse ‘Il sorriso di Michela’: “Tu che stai lì prigioniera/di una guerra senza gloria/di una guerra che hai perduto/perché a scrivere la storia/ sono sempre i vincitori/e Michela non sarà tra i loro eroi…”. L’Unità d’Italia fu il risultato di un’invasione e di una guerra civile, da cui è iniziato il divario tra Nord e Sud. Un solco che non si è ancora chiuso, anche perché non è mai stata fatta una vera riforma agraria. Peccato che a scuola non ce lo abbiano spiegato fino in fondo.
Francesca Sammarco
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