RIETI – “Caro Babbo Natale”… Quanto sarebbe bello tornare bambini, ritrovare l’ingenuità, la fede in questo personaggio al quale affidavamo sogni e desideri. Le mie richieste non venivano esaudite (mai è arrivato un cucciolo di cane o di gatto, al massimo un canarino che feci scappare quasi subito), tranne una volta, quando arrivarono i pattini, quelli a rotelle, che si regolavano con la chiavetta (se non stringevi bene ti si sfilava la scarpa e cadevi): felicità pura. Era bello sognare, sperare, desiderare, attendere, accontentandosi di poco. Come quando si affronta un cammino: non è importante la meta, ma il camminare verso qualcosa, misurandosi con i propri limiti, dopo aver cercato di superarli: “Sei sicuro che il tuo limite sia questo o ti sei arreso subito?”.
Sono cresciuta così e allora cosa chiederei oggi a Babbo Natale? Di farci ritrovare la voglia di sognare, la capacità di attendere e non arrendersi. Le persone vogliono tutto e subito, senza sapere più cosa desiderano veramente, con poco senso civico, davanti a un televisore, smartphone, computer e con sempre meno libri. Per i giovani è questa la normalità, ma per i “diversamente giovani” come me, nati in un’Italia appena uscita dalla guerra, con la voglia di tornare a vivere, a sorridere, a sognare e, come dice Francesco Guccini, “con una voglia di ballare che faceva luce”, è più difficile. Proibire qualcosa, anche se per gravi motivi, significa volere quella cosa a tutti i costi. La politica poi cavalca il disagio, mentre in questo momento, come nel dopoguerra, servirebbero unità, fermezza, capacità decisionale e soprattutto chiarezza e coerenza. Invece parlano di rimpasti o di elezioni, mentre abbiamo bisogno di punti fermi.
Anche noi però dovremmo fare la nostra parte, invece domenica 13 dicembre è stata “una giornata di ordinaria follia”, con l’assalto al Terminillo e una coda di 14 chilometri: vale a dire l’intero percorso, a partire dalla frazione di Lisciano, subito dopo Rieti. Sembra una beffa, dopo anni in cui gli operatori invocavano la neve per il periodo natalizio e con gli impianti di risalita chiusi per decreto a causa di questa malattia pandemica: la montagna di Roma (abbandonata al declino negli ultimi decenni), è stata presa letteralmente d’assalto, tanto che la polizia stradale ha dovuto chiudere la strada. Apriti cielo da parte degli operatori turistici e della pro loco, perché sono state rimandate indietro anche persone che avevano prenotato albergo e ristorante. Chi non è potuto salire in montagna si è riversato in città, affollando le strade e i ristoranti, con grande gioia ovviamente degli esercenti, ma con il grande rischio (quasi una certezza) di una terza ondata a gennaio. Nelle grandi città si fa shopping (in estate ci hanno dato il bonus vacanze, adesso il cashback), ma non è un invito a fare come ci pare, bisogna mantenere distanziamento, mascherine, igiene delle mani. A cosa serve chiudere gli impianti di risalita per evitare gli assembramenti, se poi ci affolliamo sulle piste di sci di fondo e nei locali, anche senza mascherina?
Eppure questo sarebbe il momento giusto per riscoprire il camminare lento, rilanciare i piccoli borghi e la montagna (che non è solo discesa, ma passeggiate con le ciaspole, sci di fondo, slittino), ma non sappiamo autoregolarci. Non è un momento facile per nessuno, la Germania ha deciso il lockdown totale dal 16 dicembre al 10 gennaio in meno di un’ora, anche Londra va in lockdown per il periodo natalizio: nessuno ha fiatato e non ho mai visto la cancelliera Angela Merkel, sempre molto compassata, gesticolare in quel modo. La situazione è preoccupante, ma qui continuiamo a ballare, mentre il Titanic affonda. Certo, mi direte, la Germania ha un piano di ristori economici diverso: è vero, come è altrettanto vero che in Germania le tasse le pagano tutti, mentre noi siamo il popolo dei grandi evasori, dei furbetti, degli opportunisti (ben descritti da Sordi, Monicelli, Scola), salvo poi lamentarci per la mancanza dei servizi.
Invece di dire “ci rubano il Natale”, questo potrebbe essere invece il momento per fare autocritica, correggerci, riscoprire le priorità vere, guardarci dentro. La Pasqua si celebra la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera, quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile. Gesù in realtà non ci ha mai fatto sapere il giorno della sua nascita, nella storia è stato stabilito il 25 dicembre, dopo il solstizio d’inverno, che rappresenta la strada verso la luce. Nel tardo impero romano in quel periodo si festeggiava infatti il Sole invictus (applicato a diverse divinità) ed è un esempio in cui il Cristianesimo ha assorbito un culto pagano, conferendogli un nuovo significato, legato al mondo agricolo (la tradizione cristiana ha basi comuni con quella popolare e contadina): teoricamente potremmo festeggiare in qualunque giorno, anche individualmente, ma i riti condivisi sono importanti.
Ci sono molti modi di stare insieme e di scambiarsi i regali, che quest’anno possono essere oggetti, maglioni, vasetti fatti in casa e la tecnologia aiuta a comunicare, stiamo al caldo nelle nostre case, con il frigo pieno, senza razionamenti di luce e gas, senza aerei che volano sulle nostre teste. ‘Torneranno i prati’ come ci ha detto Ermanno Olmi, nel suo ultimo film sulla guerra di trincea (con la colonna sonora di Paolo Fresu). Allora, caro Babbo Natale, ridacci la voglia di sognare, di avere fiducia, di essere capaci di ricostruire insieme e con pazienza un mondo migliore. Anche questa volta ci vorrà del tempo, ma se è vero che crisi significa anche opportunità, non facciamocela sfuggire e che “la luce in fondo al tunnel” non sia un treno che ci viene incontro.
Francesca Sammarco
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