NAPOLI – Nel preoccupante arrivo dell’Avvento (ma solo per la versione “ridotta” che si prefigura), dentro il logorio del Covid quotidiano, siamo ancora di più tesi a cercare un’ancora di salvezza, un attimo di respiro, un luogo di conforto. Qualcosa che porti serenità, che “trascenda la sfera dell’ovvio e del banale” e indichi, invece, una strada, un volto che affascini e che possa essere seguito. La tradizione napoletana, stracolma di immagini, storie, oggetti, luoghi e quant’altro ha in sé qualcosa che, se è originale da una parte, è, tuttavia, in linea con il pensiero dominante. Se infatti la tradizione viene rispettata in ogni aspetto (dalla preparazione del presepe, della natività, dai pastori in terracotta con occhi in vetro alle storie raccontate a San Gregorio Armeno), dall’altra parte sembra che non ci si distacchi molto da una riduzione dell’attesa in termini di significato.
Appare sempre più evidente una confusione tra ciò che realmente rappresenta questa attesa con ciò che è frutto di una bella, dolce, straordinaria fantasia. Il problema sembra proprio questo: riuscire a scorgere una verità che permane da 2000 anni dentro un marasma di buonismo dagli effetti psichedelici. Un groviglio di buoni propositi, assolutamente apprezzati e apprezzabili ma che poco hanno a che fare con la concretezza, con la “durabilità”, con la verità dell’Avvento e quindi del Natale. Ben vengano slitte, palline, luci, fili dorati, buonismo a fiumi perché lo schema preordinato della convenzione diffusa è che dobbiamo essere più buoni… ma solo a tempo determinato. Una sorta di precari della verità. E vai con vetrine addobbate, neve finta (perché a Napoli realmente non nevica), renne, babbonatale, pelouche, Gattuso nella grotta, De Laurentis come Re Magio. Ma sì, tanto anche loro rientrano nel grande calderone catto-fantasy o nel falso apparire social-perfect- education.
Diciamolo chiaramente: non può esserci Natale se non nella considerazione di essere di fronte ad una possibilità sempre nuova di essere riabbracciati. E’ rasserenante, a conferma di ciò, rileggere (sarebbe meglio ascoltarla) alcuni passi di una lauda del ‘500 che esprime magnificamente tale possibilità, tale desiderio che ognuno, spesso inconsciamente, cerca di esprimere. Quello di essere continuamente ripreso, riconsiderato, riabbracciato. Colpisce il cuore e la mente riascoltare questa Lauda spirituale del 1591 opera di F. Soto de Langa (1534-1609) dal titolo “Nell’apparir del sempiterno sole” (https://www.youtube.com/watch?v=kw5TnUnKKjk)
Nell’apparir del sempiterno sole
Ch’a mezzanotte più riluce intorno
Che l’altro non farìa di mezzogiorno.
Giunti i pastori all’umile presepe,
di stupor pieni e d’alta meraviglia
l’un verso l’altro fissero le ciglia.
Poi cominciaro’ vicendevolmente,
con boscarecce e semplici parole,
lieti a cantar, fin che nascesse il sole.
Io vò pregarlo con sommessa voce
“Signor, perdona li peccati miei,
che perciò credo venuto sei!”
Io non vò chieder né città né regni
ma sol vò dirgli con un dolce riso:
“Ben sia venuto il re del Paradiso!”
Et io vò gir per l’Universo mondo
Fin in Turchia, gridando sempre mai:
“Dio s’è fatt’huom e tu, meschin, no’ lo sai!”
Il Natale è la semplice, grande, esagerata pretesa di essere comunicazione, trasmissione del Bene. Non del volersi bene, vagamente inteso, che scade nel momento in cui lo si dice. Perché, diciamolo, il più delle volte manca inesorabilmente, tristemente di un fondamento. Il Natale è trasmissione di un bene che ha, invece, l’unico, originario, possibile fondamento che è Colui che può, Colui che genera, Colui che ha dato significato al Bene. Ogni altro, fugace bene è solo frutto di un desiderio che non ha base certa, che non ha fondamento se non in un sentimentalismo moralistico che lascia il tempo che trova. Fugace, insensato, senza motivo. Un po’ come il lastricar pavimenti… Il Natale propone fortemente una fonte che, in quanto tale, genera libertà, paradossalmente appartenenza e, per questo, strano a dirsi, libertà. Libertà di appartenere; appartenere liberamente contro ogni mentalità riduttivistica generata dal pensiero dominante radical chic, appartenenza ad un respiro ampio, senza insidie. Vero.
“Apparire nel sempiterno sole” cioè permanere in uno stato di accoglienza totale, sempre. Essere riabbracciato, voluto ma anche essere, consistere, apparire, quindi vivere solo se si è alla luce del sempiterno sole.
“Dio s’è fatt’huom e tu, meschin, no’ lo sai!” questa è la strofa che più di ogni altra rompe, taglia la coscienza. Perché è vero che ogni uomo tende a censurare questa grande verità e cioè che Dio si è fatto uomo. Non perfetto ma uomo. Lo scandalo nei confronti della ecclesia è proprio questo: pretendere che sia perfetta e “sana” e invece di convincersi che è piena di gente stracolma di peccati e, per fortuna, proprio per questo, capace di accogliere anche me che sono “l’unico perfetto” su questo mondo. Non c’è uomo più impeccabile di me, tutto il resto è scandalo e orribile tragedia umana. Uomini, donne, preti, suore, papi, colleghi, amici: tutti peccatori. Non si salva nessuno se non me stesso, ma a volte neanche io. Il Natale giunge a proposito per spostare lo sguardo: Dio non viene per punire i malvagi e i peccatori ma per “perdonar li peccati miei, che perciò credo venuto sei”. Per chi li riconosce, ma anche no. Per chi riconosce la straordinaria incarnazione e chi, “meschin no’ lo sai!”.
Innocenzo Calzone
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