PERUGIA – Nel Basso Medioevo e nel Rinascimento, Perugia diventò famosa, oltre che per i suoi condottieri, per i suoi bellicosi soldati e per la sua Fontana Maggiore – da cui spillava acqua proveniente da una quota molto più bassa, cosa eccezionale agli occhi dei contemporanei che arrivarono in città da tutta Europa – anche per un veleno: la cosiddetta “acquetta perugina”, inodore, insapore, incolore ed atrocemente letale, secondo i resoconti dell’epoca. Se fosse un ritrovato vegetale o chimico o una mistura di sostanze diverse non è dato sapere. E nemmeno la sua composizione è nota. Alcuni ipotizzano fosse un cocktail di acqua, arsenico, piombo, antimonio e spremitura di bacche di belladonna. Fossero davvero questi gli ingredienti, il dosaggio, comunque, resta segreto.
Ma in tutta la penisola e persino all’estero, soprattutto in Francia, la voce di questa pozione esiziale, proprio per le sue caratteristiche particolari – limpida, priva di odore e senza alcun gusto: nulla di più adatto per ingannare le vittime designate -, s’allargò a dismisura. Per alcuni, poi, l’altrettanto famigerata, anche se più tarda (si presentò nel 1600), “acqua tofana” (dal nome di una spietata, crudele avvelenatrice, Giulia Tofana di Palermo) altro non sarebbe stata che l’acquetta perugina, rivisitata o appena corretta nella qualità o quantità degli elementi. La serial killer palermitana che dalla Sicilia, sull’onda del successo ottenuto con i suoi filtri mortali, era approdata a Roma, finì il 5 luglio 1569 sul patibolo – condannata dell’Inquisizione insieme ad altre quattro complici – con l’accusa di aver confezionato e venduto boccette venefiche ad oltre seicento “signore” che l’avrebbero utilizzata per liberarsi dei loro mariti per questioni di cuore o di interesse economico.
Più di un secolo e mezzo prima, grandi cultori del veleno per liberarsi dei nemici si erano rivelati i Borgia (prima papa Callisto III e poi Alessandro VI, zio e nipote, spagnoli) che avevano lanciato sul mercato la “canterella” un veleno che, a dar retta alle fonti, veniva creato raccogliendo l’urina di un adolescente maschio e vergine, miscelata – pare addirittura dalla prima concubina dell’allora cardinale spagnolo, Vannozza Cattanei, madre tra gli altri di Cesare e Lucrezia Borgia – con rame e arsenico. Pure alti prelati e nobili ingombranti avrebbero ingerito, mangiando o bevendo, il preparato tossico col marchio della casata iberica. La nemesi, però, non avrebbe perdonato Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, avvelenato nel corso di una cena all’aperto nell’estate del 1503. Anche Caterina de’ Medici, regina di Francia, praticante d’occultismo, avrebbe fatto uso di sostanze tossiche contro gli avversari. Intendeva sbarazzarsi del genero, Enrico di Navarra, sposo di sua figlia Margot e di fede protestante (ugonotta) e, per questo scopo, aveva fatto spargere un veleno potentissimo, sulle pagine di un libro di caccia alla falconeria di cui lo spagnolo era appassionato cultore. Il genero della regina sarebbe dovuto morire, sfogliandoli, come il frate amanuense del romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”. Ma il Navarra evitò – come non si sa – la trappola che gli era stata preparata. Non tutte le ciambelle riescono con il buco…
D’altro canto, in quei secoli – lo scriveva Niccolò Machiavelli ad inizio Cinquecento – l’utilizzo dei veleni nelle corti e nei palazzi poteva considerarsi una “consuetudine”. Non si trattava, per la verità, di una novità assoluta. Nella mitologia greca ed in quella romana sono frequenti gli accenni agli avvelenamenti esiziali. E anche nella storia. Addirittura nella Legge delle XII tavole e nella Lex Cornelia d’epoca sillana, si parla di venefici e si prevedono punizioni gravissime per gli autori di tali reati. E se fosse vero (i documenti storici non sono concordi) che Sempronia, sorella dei Gracchi, si sbarazzò, per motivi politici, del marito Scipione Africano Minore con una pozione, pare che persino l’eversore Lucio Sergio Catilina abbia utilizzato il veleno, per eliminare addirittura il figlio (nato dalla prima moglie e rimasto orfano) che si opponeva al suo nuovo matrimonio con l’amatissima fiamma Aurelia Orestilla (lo afferma Sallustio nel “De Catilinae coniuratione”). Dione Cassio sostiene (ma non tutti gli esperti gli riconoscono credibilità) che Livia abbia propinato del veleno ad Augusto, ormai vecchio, per facilitare il passaggio della corona sulla testa del figlio di primo letto, Tiberio. E altri storici ritengono che la pazzia di Caligola sarebbe stata causata dalla seconda moglie dell’imperatore, la bella Milonia Cesonia, che avrebbe propinato all’ignaro marito un filtro altamente tossico.
Agrippina Minore avrebbe fatto altrettanto, anzi di più, aiutata dall’esperta Locusta, arrivata a Roma dalla Gallia, servendo una cena di appetitosi funghi (velenosi) al coniuge Claudio in maniera da spianare la strada del trono a Nerone (qualche anno più tardi il figlio “ripagò” la madre ordinando ai suoi sgherri di ammazzarla). Locusta fu condannata a morte, ma venne salvata da Nerone che, in cambio della vita, le ordinò di avvelenare Tiberio Claudio Cesare Britannico – suo competitor all’impero – nel corso di un convivio (lo riporta Tacito). Nulla di più facile per una maestra di venefici. Non la passò, però, liscia: anni dopo Galba, imperatore per pochi mesi, la fece giustiziare in modo particolarmente crudele nel 69 dC. Vipsania Agrippina Maggiore, qualche lustro prima, aveva accusato Gneo Calpurnio Pisone, governatore di Siria, di averle ucciso, in Antiochia, l’amato e valoroso sposo Germanico, il quale le aveva confidato, prima di morire tra i tormenti, di essere stato avvelenato dal governatore (forse per ordine di Tiberio, padre adottivo, geloso dei successi militari e del favore del popolo di cui godeva l’atletico rampollo della gens Giulio-Claudia). Pisone si suicidò prima della sentenza. Agrippina entrata, per sete di giustizia, in tensione insanabile con Tiberio, fu esiliata a Ventotene e, si narra, fatta morire di fame. Nessuno degli imperatori romani aveva tenuto, evidentemente, in conto la lezione di Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (132 aC-63 aC), che per evitare di diventare bersaglio di venefici si era inventato l’immunizzazione (o, appunto, mitridatizzazione) assumendo, tutti i giorni, piccole dosi di veleno…
Per tornare a casa nostra, cioè a Perugia e in Umbria, non sono certo mancati nella storia casi di avvelenamento tesi a far fuori parenti scomodi o nemici nelle famiglie Vitelli di Città di Castello, Baglioni di Perugia (che comunque usavano più sbrigativamente la spada ed il pugnale), Nepis e Fiumi di Assisi. Il primo clamoroso episodio di avvelenamento fu quello che vide quale vittima, Cante de’ Gabrielli di Gubbio. A sopprimerlo, nel 1335, un membro della casata eugubina nemica, i Raffaelli. Cante fu il Podestà di Firenze che condannò alla pena capitale Dante Alighieri e lo costrinse alla fuga ed a vagare dolorosamente (provando “come sa di sale lo pane altrui”) per le corti d’Italia. Secondo una vulgata ad ordire il piano di eliminazione sarebbe stato un Bosone Raffaelli (non è chiaro se si trattasse dell’omonimo amico e commentatore dell’opera del “ghibellin fuggiasco”). Per aver consumato fichi “trattati” con l’acquetta si spense a Perugia il pontefice e beato Benedetto XI, al secolo Niccolò Bocassio di Treviso (1240-1304). Il papa, che tutti sapevano fosse ghiotto di questi frutti, ne ricevette un cesto da parte della badessa cistercense di Santa Petronilla, monastero di via Eugubina. A recarglieli, in un giorno di inizio luglio, un garzone delle monache, vestito da donna (almeno secondo la ricostruzione offerta da Annibale Mariotti). Anche lo storico milanese, Bernardino Corio, dichiara, comunque, che i fichi fossero avvelenati, sebbene non precisi con quale sostanza tossica. Neanche il mandante si scoprì.
Tuttavia si ipotizzò – alla luce del “cui prodest?” – che Filippo II di Francia e il suo fido Guglielmo de Nogaret avessero programmato il piano per far eleggere un pontefice francese, come poi avvenne, visto che nel conclave di Perugia venne eletto Bertrand De Got, col nome di Clemente V, il successore di Pietro che trasferì la Santa Sede in Francia dando luogo all’ “esilio avignonese” (un altro Benedetto, il XIII – Pietro Francesco Orsini, all’anagrafe – subì nel 1730 la stessa sorte, per aver ingerito, da mano restata ignota, la micidiale “acqua tofana”). Il veleno spezzò la vita pure al re di Napoli, Ladislao d’Angiò Durazzo (1377-1414), che sognava di formare un grande regno in Italia e che quindi si era spinto, col suo esercito, verso l’Umbria e la Toscana. Gli fu fatale incapricciarsi di una splendida escort perugina, figlia di uno speziale. Quest’ultimo – forse convinto da un fiume di soldi dei fiorentini, i quali temevano, a buona ragione, di essere entrati nel mirino del sovrano – consigliò alla figlia di spalmarsi nelle parti intime, una certa crema (a base di “acquetta”) da lui stesso confezionata, convincendola che, con questo stratagemma, avrebbe legato a se stessa, con un amore indissolubile, la testa coronata (lo attesta lo storico Achille Sansi). Il re, infettato, cominciò ad avvertire febbre alta e terribili dolori ed entrò presto in coma. Il suo seguito tentò di riportarlo frettolosamente a Napoli, facendo tappa a Narni e a Roma, e da qui salpando in nave. Ladislao si spense quando dalla tolda del veliero già apparivano all’orizzonte i profili del Vesuvio e di Napoli. Della cortigiana – assassina suo malgrado – non sono conosciuti né il nome né la fine, che sarà stata, purtroppo per lei, altrettanto rapida e dolorosa di quella dell’amante reale. Ad onor di cronaca studi recenti hanno appurato che Ladislao morì per i troppi stravizi sessuali.
Ma la “geisha” perugina – “acquetta” o no – la sua parte nel decesso del re l’avrebbe recitata comunque. Il veleno che rese celebre Perugia (se ne parli male, purché se ne parli…) è finito anche in un passo del famoso romanzo, pubblicato nel 1846, “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas, che recita: “Noi parliamo, signora di cose indifferenti, del Perugino, di Raffaello, delle abitudini dei costumi e di questa famosa acqua tofana, di cui alcuni, vi è stato detto, conservano ancora il segreto a Perugia…”.
Elio Clero Bertoldi
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