NUORO – Michelle Cohen Corasanti, ebrea americana, è un’avvocatessa per i diritti civili. A sedici anni fu mandata in Israele dai suoi genitori e tornò 7 anni dopo con la piena consapevolezza di alzare la propria voce. “Come il vento tra i mandorli” è stato pubblicato in America da una piccolissima casa editrice, ma il passaparola tra i lettori è stato folgorante. L’associazione The Almond Treee Project da lei fondato promuove il dialogo tra israeliani e palestinesi tramite letteratura, musica e teatro
“I libri sono porte che ti fanno uscire in strada. Con i libri impari, studi, viaggi, sogni, immagini, vivi altre vite e moltiplichi per mille la tua. E servono per tenere a bada tante brutte cose: i fantasmi, la solitudine e altre stronzate del genere. A volte mi chiedo come possiate farcela voi che non leggete” (Arturo Pérez Reverto). Partendo da questa citazione ritengo che in un’era come la nostra dove la paura spesso la fa da padrone, dove l’arrivo quotidiano nelle nostre terre di milioni di profughi e migranti che attraversano il mare alla ricerca di fortuna, per sfuggire alla guerra, alla fame, a un destino di miseria e di dolore, la lettura di un libro, in special modo quello di Michelle Cohen Corasanti sia istruttivo, per non dire necessario. “Come il vento tra i mandorli” racconta una storia di israeliani e palestinesi, una storia narrata da una israeliana che lotta per la pace, la giustizia, la libertà. Ambientato in Palestina, il romanzo è la storia di Ichmad, un bimbo prodigio perseguitato dagli israeliani. Il centro di tutto è condensato in una frase lapidaria che insegna “che non si può vivere di rabbia”, e al giorno d’oggi troppi sono gli esempi negativi che la cronaca e la quotidianità riportano.
Ci troviamo in Palestina alla metà degli anni Cinquanta, mentre il conflitto arabo-israeliano infiamma. Ichmad, è un bambino di dodici anni. Ha un talento non comune per la matematica e un’ammirazione sconfinata per Albert Einstein, suo grande mito. Eppure, così giovane d’età, scopre per la prima volta la violenza e la paura. Come tutti i ragazzi dodicenni ha un sogno da realizzare, ma il destino beffardo con lui è malvagio, perciò è costretto a lasciare la scuola perché deve mantenere la famiglia quando il padre viene messo in prigione per 14 anni con l’accusa di terrorismo. Spetta infatti al primogenito il compito di prendersi cura della madre e dei numerosi fratelli e così Ichmad deve trovare un lavoro, e in fretta, per combattere un nuovo, subdolo nemico: la fame.
Con il fratello Abbas, che viene buttato giù da un’impalcatura e rimane storpio, si spezza la schiena tutti i giorni e a stento riesce ad assicurare un po’ di cibo per la madre e il resto della famiglia. La gioia e la serenità che avevano caratterizzato i suoi primi 12 anni svaniscono come una folata di vento spazza via le foglie appena cadute da un albero. La sua famiglia viene costretta dall’esercito israeliano ad abbandonare la casa e tutti i propri averi per trasferirsi in un fazzoletto di terra che ha come unica ricchezza e bellezza una pianta di mandorlo, unica fonte di sostentamento e ristoro. Suo unico conforto, il mandorlo in fondo al giardino, dai cui rami può spiare il moshav limitrofo (tipo di comunità agricola, di cooperativa costituita da singole fattorie) e vedere bambine e bambini giocare felici. A lui che tutto ciò è negato questo appare un mondo tanto difficile da comprendere quanto affascinante. Quando, anno dopo anno, ingiustizia dopo ingiustizia, i suoi fratelli soccombono all’odio verso Israele, Ichmad lotta per dare un senso a ciò che lo circonda. Il professore di Ichmad spinge il ragazzo a partecipare ad un concorso per vincere una borsa di studio per l’università di Tel Aviv, e anche se vestito di stracci e con i sandali cuciti dalla mamma con dei pneumatici vince il primo premio dopo una gara difficilissima. Divenuto adulto, grazie ai suoi sforzi e al suo talento, riesce ad emigrare negli Stati Uniti dove finalmente ricomincia a sognare sebbene nuove difficoltà gli rendano ostico il cammino.
A mettergli il bastone fra le ruote questa volta sarà il professore di fisica Sharon che fa di tutto per farlo cacciare dall’università. Alla fine però sarà proprio il professor Sharon che gli spianerà la strada per la carriera universitaria in America e insieme i due vinceranno il premio Nobel per la fisica. Ichmad dimostra alla sua famiglia che si può e si deve aprire un dialogo con gli ebrei. Il professore che Ichmad incontra all’Università è un ebreo, e all’inizio lo detesta, ma una volta accantonati i pregiudizi si rende conto che Ichmad ha veramente un talento fuori dal comune e pertanto lo stimola affinché con impegno raggiunga ottimi risultati. In poco più di 300 pagine (374 per l’esattezza, divise in quattro parti: 1955–1966–1974–2009) il palestinese Ichmad racconta la vita della sua famiglia in un villaggio sotto la dominazione di Israele.
È una storia dura, cruda, a tratti violenta che si legge tutta d’un fiato. È un romanzo bellissimo con un insegnamento meraviglioso: bisogna crescere con radici profonde come quelle degli ulivi che resistono alle aggressioni e continuano a dare i loro frutti per secoli, perché non bisogna consentire a nessuno di “portarti via l’anima” e con chiunque ci si incontra bisogna “sforzarsi di trovare un interesse comune”. Condivisione, amicizia, inclusione, aiuto reciproco alla fine dominano su tutto. “Come il vento tra i mandorli” racconta la bellezza della cultura araba e i momenti importanti della vita, dal matrimonio ai funerali, e ha come temi la forza della famiglia, l’amore di un padre verso i figli, l’amore di una donna per il suo uomo. Tra le righe del romanzo la ricerca della pace si nutre del talento e dei sogni di questo ragazzo che riesce a insegnare ai lettori la vita anche dove essa sembra non potersi più vivere.
Quando Ichmad dopo molti anni ritorna a casa, dopo un lungo soggiorno in America, non crede ai suoi occhi: la situazione non è per niente cambiata, anzi, è decisamente peggiorata. Dopo un viaggio a Gaza, si rende conto che le cose devono cambiare, per questo decide di raccontare la sua lunga e travagliata storia. La differenza genera pregiudizi e i pregiudizi odio, e alla fine l’odio genera morti, guerre e distruzione. Ichmad e Sharon sono due personaggi frutto della fantasia di Michelle Cohen Corasanti, ma se esistessero persone così, e sicuramente in giro per il mondo ve ne sono, seppur accecate dall’odio di cui vengono nutriti sin da piccoli, il mondo potrebbe cambiare, a cominciare da quel piccolo ma conteso Stato affacciato sul Mediterraneo.
Il libro è scritto in uno stile giornalistico che non lascia spazio a sentimentalismi. Il suo scopo è far riflettere sugli anni che hanno cambiato il corso della storia nel Mediterraneo. Ci vengono raccontate con crudezza ma realismo le vicende legate alla Guerra dei Sei Giorni, nel giugno del 1967, quando gli israeliani conquistarono la Striscia di Gaza, la penisola del Sinai, la Cisgiordiania e Gerusalemme Est. La vicenda è narrata in prima persona dal protagonista Ichmad. È una storia struggente che narra la tragedia di un conflitto che ancora oggi ci vede spettatori inermi, senza nessuna ipotesi di risoluzione ma che allo stesso tempo ci regala la speranza del buon fine. Quella stessa speranza che ha nutrito l’albero di mandorlo di Ichmad, rimasto lì fermo e immobile, a vegliare su di loro, nel vento della guerra.
“La mia infanzia mi ha insegnato che una goccia insistente può bucare la roccia. Ho imparato che la vita non si compone solo di ciò che accade, ma anche delle reazioni che decidiamo di avere. L’istruzione è stata la mia ancora di salvezza; e grazie a essa, sono stato in grado di elevarmi al di sopra delle circostanze in cui ero costretto a vivere”.
Virginia Mariane
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