PERUGIA – Dietro le quinte della scoperta della statua dell’Arringatore, opera d’arte etrusca di altissimo livello tecnico, proveniente da Pila di Perugia – come ha dimostrato, in maniera inoppugnabile e definitiva la recente scoperta del paleografo Alberto Maria Sartore – per l’esattezza in località Fonte di Sant’Ilario, si cela anche una vicenda, molto cinica, secretata dalla ragion di Stato, dei rapporti tra Pio V (papa Antonio Ghisleri) e Cosimo I de’ Medici, che, in quel periodo, brigava per farsi riconoscere dal pontefice Granduca di Toscana.
Uno dei testimoni della vicenda del ritrovamento della statua è stato individuato nell’orafo perugino Giulio Danti, che chiamato davanti alla giustizia del tempo, spiegò che ad acquistare l’antico bronzo – anche se era stato lui stesso a tenere i contatti ed a pagare il contadino Costanzo di Camillo, detto il Barbone (ex soldato della “Guerra di Siena”), scopritore casuale del bronzo mentre lavorava in un uliveto – era stato suo figlio Ignazio, cartografo del ducato di Toscana, per conto del duca di Firenze.
La vendita si svolse in tempi particolarmente rapidi se Giorgio Vasari, uno dei collaboratori più stretti del duca, il 20 settembre 1567 scriveva ad un amico: “La statua è arrivata intera intera, che non gli manca niente”. Il paleografo lettore e interprete degli atti del processo penale e civile – svoltosi a Perugia perché la nobildonna Mansueta de’ Mansueti sposata con un Graziani, reclamava i soldi che il duca aveva versato al contadino per la statua di Aulo Metello, in quanto il rinvenimento era avvenuto nei terreni di sua proprietà – ha ricostruito come l’opera d’arte etrusca fosse stata trasportata con un carro trainato da due cavalli, passando per Tuoro e Cortona e non per la più agevole e piana strada di Sant’Arcangelo e Chiusi. E che l’Arringatore rappresentava un omaggio del pontefice (in quanto un terzo dell’opera bronzea doveva considerarsi della Camera Apostolica, perché Perugia faceva parte integrante del Patrimonio di San Pietro).
Quale il motivo di quel grazioso dono? Cosimo era stato forzato pochi mesi prima, a consegnare all’Inquisizione, su pressioni dello stesso papa, Pietro Carnesecchi, letterato ed intellettuale toscano, legato ai circoli di Vittoria Colonna, vedova D’Avalos, marchesa e poetessa (amica del cardinale inglese Reginald Pole, di Michelangelo Buonarroti, di Bernardino Ochino, dello scrittore spagnolo Juan Valdes e di altri adepti che professavano idee di riforma della Chiesa Cattolica) e di Giulia Gonzaga, vedova di un Colonna, che viveva tra Fondi e Napoli. Queste correnti religiose venivano sospettate di coltivare l’eresia luterana. Carnesecchi, condannato due volte per questo reato, in entrambi casi era stato assolto e perdonato. Tra i più accesi sostenitori delle tesi accusatorie e punitive si distinse il cardinale Ghisleri che, salito al soglio di Pietro, intimò al duca che l’umanista ed ex protonotario papale, rifugiatosi a Firenze, venisse rispedito a Roma per subire un nuovo procedimento.
Il duca sulle prime provò a resistere (i Carnesecchi, da sempre, orbitavano intorno alla propria casata, di cui risultavano fedelissimi, tanto che Pietro al suo cognome aveva ottenuto di poter aggiungere quello dei Medici), ma alla fine fu costretto (nel 1566) a cedere. Carnesecchi venne processato e condannato a morte per eresia. Anche perché, con il decesso di Giulia Gonzaga, l’Inquisizione entrò in possesso di una serie di lettere, sequestrate nell’archivio della nobildonna, contenenti precisi riferimenti alle teorie religiose dell’umanista (da lei stessa, peraltro, condivise: se fosse stata in vita il papa – così disse dopo averle lette – l’avrebbe “abbrusciata”!).
Questi elementi, imbarazzanti e gravi, fecero pendere l’ago della bilancia a favore dell’accusa. Il papa, col “regalo” dell’Arringatore, cercò di tenere buono Cosimo, che dal canto suo, non aveva alcun interesse a tirare troppo la corda in quanto attendeva il “placet” del Santo Padre, per fregiarsi del titolo di Granduca (nomina che si concretizzò nel 1569). Carnesecchi venne decapitato e il suo corpo fu arso sul rogo, il 16 agosto 1567. Il fiorentino fu l’unico del gruppo di “riformatori” a subire la pena capitale – anche se affrontata con grande dignità (più volte torturato non si fece sfuggire mai alcun nome dei presunti complici) – in quanto tutti gli altri personaggi erano scomparsi di scena, via via, per morte naturale.
Elio Clero Bertoldi
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