PALERMO – Ci sono volute le lacrime inconsolabili di sua madre, c’è voluta la tenacia di una commissione d’inchiesta parlamentare, c’è voluto un comitato cittadino che ha chiesto senza sosta la verità sulla sua tragica morte. Solo così, dopo quasi 21 anni, è stata resa giustizia a Emanuele Scieri, parà di leva siracusano trovato morto il 16 agosto 1999 a Pisa all’interno della caserma “Gamerra”, sede del C.A.PAR., Centro Addestramento Paracadutisti. Il 12 maggio 2020 la Procura Militare di Roma ha infatti chiuso le indagini sulla vicenda contestando a tre persone il reato di “Violenza ad inferiore mediante omicidio pluriaggravato, in concorso”.
Le conclusioni giudiziarie a cui è pervenuta la Procura Militare di Roma hanno confermato il lavoro prezioso e decisivo della commissione parlamentare di inchiesta, guidata fra il 2016 e il 2017 da Sofia Amoddio, grazie alla quale il “caso Scieri” è stato riaperto già nel 2018 dalla Procura di Pisa e, nel maggio scorso, da quella militare di Roma. La procura militare della Capitale ha appunto notificato avvisi di reato ad Andrea Antico, caporalmaggiore dell’Esercito oggi in servizio a Rimini, ad Alessandro Panella e Luigi Zabara, caporali in congedo. I procuratori generali militari Marco De Paolis e Isacco Giorgio Giustiniani accusano i tre “di aver cagionato con crudeltà la morte dell’inferiore in grado allievo-paracadutista Emanuele Scieri”.
Secondo quella che è ormai la ricostruzione ufficiale della Procura Militare di Roma, “tra le ore 22.30 e le 23.45 del 13 agosto 1999”, i tre caporali si imbattono in Scieri, “che stava per effettuare una chiamata con il suo telefono cellulare, poco prima di rientrare negli alloggiamenti del reparto di appartenenza per ottemperare all’obbligo imposto alle reclute”. I tre caporali fermano Scieri e gli rinfacciano “di aver violato le disposizioni che, per ragioni di disciplina, gli vietavano di utilizzare il telefono cellulare”. Poi, esercitando un abuso di autorità, gli intimano “di effettuare subito numerose flessioni sulle braccia e, mentre le eseguiva, lo colpivano con pugni sulla schiena e gli comprimevano le dita delle mani con gli anfibi, per poi costringerlo ad arrampicarsi sulla scala di sicurezza della vicina torre di prosciugamento dei paracadute, dalla parte esterna, con le scarpe slacciate e con la sola forza delle braccia”. Mentre Emanuele Scieri cercava di risalire la torre, “veniva seguito dal caporale Panella che, appena raggiuntolo, per fargli perdere la presa, lo percuoteva dall’interno della scala e, mentre il commilitone cercava di poggiare il piede su uno degli anelli di salita, gli sferrava violentemente un colpo al dorso del piede sinistro; così facendo, a causa dell’insostenibile stress emotivo e fisico subito, provocato dai tre superiori, Scieri perdeva la presa e precipitava al suolo da un’altezza non inferiore a 5 metri, in tal modo riportando lesioni gravissime”.
Dopo la caduta, Panella, Antico e Zabara, “constatato che il commilitone, sebbene gravemente ferito, era ancora in vita”, invece di soccorrerlo “lo abbandonavano sul posto agonizzante”, e così “ne determinavano la morte”. Morte che “il tempestivo intervento del personale di sanità militare, da loro precluso, avrebbe invece potuto evitare”. Nonostante i camerati di leva avessero detto che era tornato in caserma con loro la sera del 13 agosto, il cadavere di Emanuele Scieri venne ritrovato solo il 16 agosto, nascosto alla meglio sotto la torre di prosciugamento, a meno di cinque metri dal muro di cinta della “Gamerra”.
Quello appena narrato, che sembrerebbe un racconto dell’orrore, è invece il fatto realmente accaduto in una caserma italiana. Un caso estremo di “nonnismo”: così viene chiamato l’atteggiamento vessatorio e violento da parte dei camerati più anziani verso le reclute, talvolta ignorato o minimizzato dalle gerarchie militari. “Io ho sempre pensato che fosse stato un atto di nonnismo assurdo”, afferma commossa la signora Isabella Guarino, la mamma di Emanuele Scieri, che non hai mai creduto alla versione del suicidio, ipotizzata per anni dai vertici militari.
“Occhi blu così limpidi che sembravano mare, un sorriso dolcissimo; questo era Lele: gentile, educato era impossibile che ti facesse antipatia, era impossibile non essere sua amica […] era bello incontrarsi lungo i corridoi della scuola o in cortile durante la ricreazione, o in piazza al pomeriggio e scambiare qualche parola”. Queste le parole accorate della dottoressa Daniela Cucè, che fu sua amica e compagna di scuola, al liceo classico di Siracusa.
Ciao, Emanuele: ricorderemo sempre i tuoi occhi azzurri intelligenti, limpidi e buoni. E ci impegneremo perché in futuro nessuno sguardo venga più offuscato e spento dalla violenza stupida, arcaica e assassina del nonnismo.
Maria D’Asaro
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