ROMA – “Aprite quella porta”, è l’esortazione, anzi, l’appello di Igor Patruno, uno dei più grandi esperti della vicenda di Simonetta Cesaroni, la ventunenne uccisa 30 anni fa, il 7 agosto 1990. Il terribile crimine ancora avvolto nel mistero avvenne in una bella palazzina al civico 2 di via Poma, nella signorile zona Prati a Roma, nell’ufficio dove la ragazza di periferia andava a lavorare. Ed è proprio lì che il giornalista scrittore continua a sostenere si debba ricominciare ad indagare per arrivare alla verità, proprio in quella palazzina ed in particolare sulla porta dell’ufficio dove avvenne il misfatto.
Autore di libri su questo delitto irrisolto (nel 2010 “Via Poma – la ragazza dall’ombrellino rosa”, ed. Ponte Sisto, poi lo scorso luglio, “Via Poma 30 anni dopo”, Armando editore), Patruno dal 1990 ad oggi non ha smesso di fare le pulci ad una indagine che secondo lui e molti altri sarebbe stata condotta in modo trasandato, tra errori macroscopici e sviste a dir poco ingenue. In trenta anni lo scrittore ha continuato a cercare con scrupolo certosino, a scandagliare prove e atti giudiziari, sentire testimonianze e rivedere filmati. Lo ha fatto e lo fa perché sia fatta luce sulla morte “di una ragazza come tante, normale e perbene, che ha finito di vivere in una palazzina della Roma perbenista”. Igor Patruno continua a ripetere che non accetta l’idea che non ci sia un responsabile di un delitto tanto efferato la cui vittima è stata l’unica a pagare, anche in termini mediatici, perché l’immaginario collettivo concentrò quasi solo su di lei – non tanto sull’assassino – le attenzioni morbose riguardo questa torbida storia.
“Invece era solo una ragazza come tante, che era uscita con un ombrellino rosa – il tocco poetico di Patruno aggiunge molto alla descrizione realistica della vera Simonetta – perché quel giorno c’era rischio di pioggia”. E così da quando, nel 2007, il suo primo libro è stato pubblicato, Patruno ha continuato a cercare di capire il perché di una morte solo apparentemente inspiegabile. “O meglio – aggiunge – che non si è voluta spiegare”. E quindi, a suo parere, l’inchiesta deve essere riaperta perché, di fatto, ormai il caso è praticamente chiuso anche se sulla vicenda aleggia da sempre una nebbia fitta. Sì, insomma, quello della Cesaroni rimane un “cold case”, il classico caso irrisolto. Lo scrittore, quindi, è sicuro – e lo scrive nel suo ultimo libro – che se si vuole scoprire il nome dell’assassino si debba ripartire dal sangue trovato sulla porta di quel maledetto ufficio dove Simonetta lavorava e dove fu trucidata barbaramente dopo essere stata violentata.
“Si disse che era una prova inquinata – ricorda – ma sono certo che il prelievo delle tracce fu eseguito correttamente”. Questo depistaggio, secondo lui, sarebbe stato solo uno dei tanti, come quella della conversazione sul Videotel o i Servizi segreti. “Altre bufale – sottolinea – per far passare la vicenda come l’epilogo di una storia di sesso o comunque per intorbidare le acque”. Tanta confusione, quindi, e troppe mosse maldestre in questa indagine che non ha mai portato a niente. Un’inchiesta farraginosa che secondo lo scrittore sarebbe stata funzionale a coprire qualcuno di cui si sa anche il gruppo sanguigno. “Su quella porta c’è sangue maschile di gruppo A – precisa – mentre Simonetta era di gruppo 0”. Riaprire le indagini, quindi, e subito, secondo Patruno. “Bisogna riconsiderare le prove acquisite – afferma – soprattutto le gocce di sangue, schizzi veri e propri che nonostante la stanza fosse stata ripulita benissimo dopo l’omicidio, rimasero sul mobilio: lì c’è la firma dell’assassino”.
Ce n’era molto di sangue di Simonetta, nella stanza, sebbene la versione degli inquirenti fosse stata diversa. Si disse che, dopo il colpo in testa, la ragazza era semisvenuta e il calo pressorio non aveva fatto sgorgare sangue dalle ferite inferte sul suo corpo. Ma Patruno è in grado di riscrivere anche questa pagina di quell’orribile momento. “E’ una menzogna – sottolinea – il sangue di Simonetta sgorgò abbondantemente, schizzò, ma è stato ripulito da chi l’ha uccisa che nella fretta lasciò qualche traccia”. Prova che la scena del crimine dovesse essere stata terribilmente macabra è la relazione del medico legale Ozram Carella Prada che constatò, ad un metro di distanza dal corpo martoriato della ragazza, gocce di sangue di gruppo 0 ( il suo) descritte “essiccate, conformate”. Erano sfuggite, probabilmente, dalla ripulitura che fu fatta dopo la strage. Sarebbero state utili all’inchiesta come quelle trovate dal padre di Simonetta quando, pochi mesi dopo la morte della ragazza, si recò sul posto. Qui, Claudio Cesaroni, inginocchiatosi dove era stato ritrovato il corpo senza vita della figlia, vide sulle gambe di una poltroncina – come riferì al pubblico ministero Settembrino Nebbioso – altri schizzi di sangue.
“Gli inquirenti non vollero tener conto di questi elementi – fa notare Patruno – e si preferì dare una visione soft di questa morte, una visione silenziosa, quasi poetica facendo apparire la vittima già praticamente incosciente”. Il giornalista è ancora una volta contrariato, dice di no. Simonetta, secondo lui, sarebbe stata perfettamente consapevole quando il suo uccisore la feriva a morte, con rabbia, con un tagliacarte. La ragazza non aveva avuto nessun calo pressorio che le avrebbe fatto perdere i sensi, come si disse in ambienti giudiziari. Ed è a questo punto che Patruno ricostruisce con lucidità la sua visione di uno dei momenti più drammatici della vicenda da sempre raccontata in un altro modo. “Simonetta era perfettamente vigile – sottolinea Patruno – ed ha lottato contro il suo aggressore, lo ha ferito, si è difesa, ha urlato, ha chiesto aiuto. Questi schizzi di sangue che non si sono voluti considerare ci dicono molto sulla scena del delitto che nella realtà è stata molto diversa da come ce l’hanno descritta e trovo molto strano che nessuno, nel palazzo, si sia accorto di quanto stava avvenendo”.
Il giornalista, nel libro, ricostruisce questa scena finale di una strage tanto orribile quanto senza spiegazioni e mentre lo fa secondo la sua visione dei fatti, si infervora, si commuove “perché una ragazza giovane, piena di speranze, esuberante, non può morire in questo modo senza motivo. Troppe verità rimangono da svelare”. Come quel pelo sulla mano di Simonetta, sfuggito agli inquirenti seppur ben visibile nella foto che sta agli atti dell’inchiesta. “E’ un pelo pubico maschile – fa notare Patruno – e non ci credo che nessuno se ne sia accorto”. Ma è successo, come è successo che non si sia mai arrivati a trovare un colpevole per i tanti cosiddetti segreti di Stato italiani. L’uccisione di Simonetta, probabilmente, è uno di questi. Quella ragazza semplice, che a 21 anni veniva da Cinecittà con i mezzi pubblici per guadagnarsi lo stipendio, che cercava un amore stabile con cui costruirsi un futuro come fanno tutte le giovani della sua età, deve essersi imbattuta in qualche pezzo grosso che nessuna prova evidente è bastata a far – o a voler far – identificare. “Ed è proprio l’identità di questo uomo – conclude Patruno – la causa della morte della povera Simonetta, scritta con il sangue su quella porta da cui si deve ricominciare ad indagare”.
Gloria Zarletti
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