PERUGIA – “Sei il più sapiente degli uomini’’: così rispose l’oracolo di Delfi alla domanda di un ateniese con il naso grosso, gli occhi sporgenti e a piedi nudi. Quell’uomo – di nome Socrate, figlio di Sofronisco, del demo di Alopece, queste le generalità del visitatore del tempio – sulle prime restò interdetto di fronte al responso, ma pian piano, ragionandoci sopra, si convinse della giustezza del vaticinio in quanto lui, contrariamente a tutti gli altri suoi concittadini, ammetteva, candidamente: ‘’Io so di non sapere’’. Atteggiamento alla base della vera conoscenza.
Prima di imboccare la strada della filosofia, Socrate (nato nel 469 aC e morto nel 399 aC) era stato avviato dal padre marmista (la madre, Fenarete, svolgeva l’attività di ostetrica) al mestiere di scalpellino. Ben presto, tuttavia, il giovane cambiò decisamente strada e dal lavoro manuale passò all’impegno intellettuale. Frequentando le lezioni del filosofo Archelao, formato alla scuola di Anassagora, l’ex artigiano si trasformò in un apprezzato maestro della migliore gioventù di Atene, in virtù della stima di cui godeva tra le personalità politiche di maggior spicco della città, come Crizia e Carmide (gli zii di Platone, suo allievo), di Callia (che gli affidò il figlio Ermocrito), dello stesso Pericle (che gli indirizzò il figlio adottivo Alcibiade). Di Socrate filosofo parlano tutte le fonti coeve (Platone, Senofonte, il commediografo Aristofane, che lo prese in giro alla grande e che definiva sprezzantemente “Pensatoio” la scuola socratica) e quelle successive (a cominciare da Aristotele). Trattare, quindi, dell’arte maieutica che contraddistinse il pensatore e della sua filosofia, risulterebbe inutile e forse, persino noioso.
Un tratto della vita e del carattere di questo grande personaggio della storia e della cultura occidentale, è rimasto, invece, se non nascosto di sicuro ai margini e, dunque, meno noto e meno approfondito: la sua gloriosa esperienza militare, di semplice soldato. Come tutti gli ateniesi, a 18 anni Socrate (nato il sesto giorno del mese di Targelione – ricorrenza molto sentita ad Atene e consacrata ad Apollo – nel terzo anno della LXXVII Olimpiade) aveva dovuto rispondere alla chiamata alle armi entrando nella caserma del Pireo, sorta di Car (centro addestramento reclute) dell’epoca, dove si era distinto quale provetto oplita e dove gli erano stati impartiti, in aggiunta alle esercitazioni militari, ferrei principi religiosi, come voluto dalla tradizione e dalle leggi ateniesi. Inoltre, nel corso dell’infanzia, come a tutti gli altri ragazzi, erano stati forniti insegnamenti di grammatica e di musica, quest’ultima particolarmente necessaria in quanto in battaglia gli ordini venivano lanciati non a voce, ma al suono dei flauti e delle trombe. Alla prova sul campo Socrate fu messo, nel 433 aC, nella spedizione contro la polis di Potidea e nell’assedio protrattosi per un paio di anni e che costò ad Atene – assicurano le fonti – la cifra record di duemila talenti. Socrate combatteva nella falange come oplita, dunque nella fanteria pesante, con scudo, spada, lancia, elmo, corazza (peso complessivo dell’armatura intorno ai 35 chili) e sgargiante tunica rossa.
Narrano che si battesse valorosamente, tanto da salvare anche la vita del suo allievo Alcibiade (ricco, bello, intelligente, ambiziosissimo) e che mostrasse una enorme resistenza fisica al freddo ed alla fame. Insomma: sarà stato davvero sgraziato e brutto nel volto, ma si presentava pure con un fisico atletico e solido, da guerriero ardito ed aitante. Altro che il filosofo goffo, bizzarro e distratto, dipinto e ridicolizzato ne ‘’Le nuvole’’ ed in altre commedie da Aristofane… In guerra si comportò, piuttosto, non solo da eroe, ma persino da signore: girò infatti l’onorificenza, che gli era stata attribuita dai capi dell’esercito per le sue coraggiose azioni sul campo di battaglia, proprio all’amico ed allievo Alcibiade. Sempre da oplita, ed ormai cinquantenne, Socrate partecipò – nel frattempo Pericle, protagonista degli anni d’oro di Atene, quelli della democrazia e della ricostruzione del Partenone e dei Propilei, era morto di peste nel 429 aC – ad un altro sanguinoso conflitto, la seconda Guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta, tanto da prendere parte, tra le altre, alla battaglia di Delio in Beozia, conclusasi con la sconfitta degli ateniesi, messi in rotta dallo stratega tebano Pagonda (424 aC), che proprio in quello scontro aveva disposto le falangi in maniera innovativa ed efficace.
Pure in questa concitata e infausta e circostanza – l’esercito ateniese al comando di Ippocrate, che morì negli scontri, si trovò in netta inferiorità numerica e per di più venne colto di sorpresa – Socrate mise in luce le sue alte virtù e qualità militari: si ritirò in buon ordine, armi in pugno e sguardo fiero e minaccioso, difendendo e portando in salvo, nonostante le incursioni e gli assalti dei nemici, uno dei suoi comandanti, lo stratega Lechete (descritto come terribilmente ‘’impaurito’’ dalle pieghe prese dalla caotica e disperata ritirata). Si può capire dall’atteggiamento che distinse il filosofo in guerra, anche il comportamento tenuto nel corso del processo che gli venne intentato più tardi, ad opera di Meleto, commediografo, di Licone, oratore, e di Anito, attivista e fautore della fazione antidemocratica (salita al governo, detto dei Trenta Tiranni) con l’accusa di empietà ‘’per non aver riconosciuto gli dei dello Stato’’ e di ‘’corruzione della gioventù’’. Nel corso del dibattimento l’arguto filosofo si difese con brillanti argomentazioni e ficcante ironia (fino a chiedere di dover essere, piuttosto che castigato, ospitato nel Pritaneo a spese dello Stato, come si era usi fare, a quei tempi, coi cittadini che avevano reso grandi servizi alla comunità) e, una volta condannato a morte, pronto a rispettare la sentenza pure ingiusta, perché alle leggi – questa la sua argomentazione – bisogna sempre e comunque attenersi.
E così Socrate rifiutò di sottrarsi a bere la cicuta, potente veleno servito in una tazza e di allontanarsi da Atene in nave, postagli a disposizione dai suoi influenti allievi ed estimatori. La morte del filosofo, descritta minuziosamente da Platone nell’Apologia e nel Fedone, dovrebbe essere letta da tutti – non solo dai liceali o dagli studenti universitari, ma da politici, amministratori, semplici cittadini – in quanto insegna, tra gli altri aspetti etici e morali, il rispetto vero e profondo della legalità. Socrate argomenta che farsi processare sia il completamento della sua missione di pedagogo, di educatore, di filosofo. Spiega che la legge ha origine divina e che la giustizia si debba comunque rispettare anche in caso di sentenza ingiusta. Si possono cambiare le leggi, certo, ma non violarle. Offre, senza tentennamenti e nonostante le suppliche degli amici che volevano salvargli la vita, il suo corpo al veleno che gli viene porto per riaffermare, in concreto, la fedeltà alla Legge. E tutto questo a spese del proprio interesse personale, anzi di più: della propria vita. Incommensurabile lezione. Allora come oggi e, si spera, pure domani.
Elio Clero Bertoldi
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