//Quei “maestri” che non vanno in cattedra

Quei “maestri” che non vanno in cattedra

di | 2020-07-12T06:42:39+02:00 12-7-2020 6:44|Punto e Virgola|0 Commenti

Ci sono incontri (e persone) che segnano inesorabilmente la vita di ciascuno di noi. Spesso sono casuali, altre volte inevitabili perché legati all’ambito lavorativo: in ogni caso fondamentali nella crescita e nella capacità di affrontare meglio la vita e la professione. Nel giro di un mesetto, se ne sono andati due colleghi, anzi due amici che molto hanno contato nella mia formazione e nel mio essere “giornalista”.

Paolo Aquaro

L’ultimo, qualche giorno fa, è stato Paolo Aquaro. E’ morto nella sua Martina Franca (la “capitale” della splendida Valle d’Itria), stroncato da un infarto durante la notte: aveva 84 anni ed era stato, verso la metà degli anni Ottanta, mio inseparabile compagno di tante trasferte calcistiche al seguito del Taranto, in serie B e in serie C. Lavoravamo in giornali diversi e concorrenti, ma questa situazione non fu mai di ostacolo ad un rapporto sano, amichevole, complice per certi versi. Pur non essendo per studi e formazione uomo di cultura, Paolo possedeva una profonda cultura che elargiva a piene mani, spesso declinandola nel suo simpaticissimo dialetto. Indimenticabili i siparietti in cui chiedeva informazioni ad un passante (allora non esistevano tomtom, né navigatori o smartphone) e lo ringraziava appunto in martinese, riuscendo a farsi capire persino a Genova o Udine o Licata… In tribuna stampa, lui professionista senza peli sulla lingua prendeva sovente le difese del “nostro” Taranto, contro i giornalisti del posto che criticavano magari la tattica rinunciataria dei rossoblù sempre a caccia del punticino per evitare la retrocessione. Chi scrive invece era un pubblicista, precario e abusivo (però inviato…) in costante attesa di un praticantato che non sarebbe mai arrivato nelle mia città.

Paolo Aquaro non si era mai ripreso dalla tremenda botta ricevuta con la perdita del figlio Angelo, sconfitto l’anno scorso da un male incurabile contro il quale aveva a lungo combattuto. Angelo era vice direttore di Repubblica ed era stato a lungo corrispondente da New York per lo stesso quotidiano. Durante un viaggio in auto per Bergamo (dove il Taranto avrebbe dovuto affrontare l’Atalanta), ci fermammo a Parma dove Angelo completava il praticantato a La Gazzetta. La cena in un paesino, Vigatto, con un menu semplice, ma rimasto indimenticabile: tortelli di zucca, parmigiano reggiano e prosciutto crudo (“come se piovesse”, chiosò Paolo). Leggeva sempre i miei articoli, ma non li commentava mai a caldo. Magari dopo giorni o settimane, avanzava una garbatissima critica (naturalmente aveva ragione lui), molto spesso li lodava. Ogni tanto aggiungeva: “Spero che quel titolo non lo abbia fatto tu…”, ma già sapeva che non era farina del mio sacco, per quanto povero potesse essere all’epoca. Quando parlava di qualunque argomento, bisognava solo ascoltarlo: c’era sempre qualcosa da imparare. Fu uno dei primi a sapere che sarei andato a Forlì per fare finalmente il praticantato: “Ottima decisione, qui a Taranto c’è poco spazio per gente come te. E non tornare, mi raccomando, se non per le vacanze”.

Leonello Flamigni

Già, Forlì. Dove arrivai chiamato da un altro antico maestro, Franco Cigliola. Lì in Romagna, il mio capo redattore era Leonello Flamigni: se ne è andato un mesetto fa per un malore, dopo una partita di tennis, sport che praticava con costanza da sempre. “Flam” era un’istituzione del giornalismo forlivese, veniva dal “Carlino” e aveva accettato la sfida di un giornale nascente in cui la maggior parte della redazione era composta da giovani di scarsa esperienza. Le difficoltà erano tante e la concorrenza assai agguerrita: allo storico “Resto del Carlino” si aggiunse ben presto l’edizione romagnola del Messaggero, allora di proprietà del ravennate Raul Gardini. Che in quella impresa ci buttò letteralmente miliardi di lire. Nonostante tutto, si riusciva a fare un buon prodotto: “La squadra c’è”, soleva ripetere Leo. Da praticante ad un certo punto diventai responsabile dello sport e dovetti anche cimentarmi col basket (che fino ad allora avevo seguito solo da appassionato) perché era la disciplina più amata in quella zona: per essere all’altezza della situazione, dovetti letteralmente mettermi a studiare. Lo feci con passione e i risultati non mancarono.

“Flam” stava pochissimo in redazione, ma aveva uno straordinario polso della città: c’erano i quotidiani appuntamenti al Circolo di Villa Carpena per un paio di set; c’erano i bar, i circoli, i club… E lui conosceva tutto e tutti. Anche in quel caso, nessun insegnamento diretto: bisognava semplicemente seguirlo e imparare, se si aveva voglia. Un paio di volte al mese organizzava le cene di redazione a casa sua: la Sara cucinava quantità industriali di tagliatelle per un branco di giovani giornalisti affamati. Lì si organizzava il giornale dei giorni seguenti, si programmavano iniziative, si studiavano strategie di marketing per incrementare vendite che – nonostante tutto – calavano inesorabilmente. Dopo due anni e mezzo, fu dichiarato lo stato di crisi ed io decisi volontariamente di andare in cassa integrazione per tornare a Taranto dopo speravo di poter rientrare in qualche modo nel giro: speranza vana, naturalmente. “Fai vertenza –  mi esortò Paolo -. Io sarò il primo a testimoniare e a dire come stanno realmente le cose”. Non lo ascoltai e ancora oggi me ne pento.

Ciao Leo, ciao Paolo: siete stati amici e maestri, ma non siete mai andati in cattedra. Perché chi sa insegnare non ha bisogno di un piedistallo. Grazie di tutto e che la terra vi sia veramente lieve.

Buona domenica.

 

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