PERUGIA – Quello tra il 1943 e il 1944 si rivelò uno degli inverni più terribili per l’Italia: sofferenze di ogni tipo per la popolazione, “con il piede straniero sopra il petto” per dirla con Salvatore Quasimodo, uccisioni, massacri, torture. A Roma nazisti e fascisti tentavano in ogni modo di reprimere gli aneliti di libertà, sempre più frequenti e numerosi. Nell’autunno, poche settimane dopo l’armistizio, i bravacci di Mario Carità, capo della omonima banda fascista di repressione, aveva messo a punto un colpo decisamente importante, forse più di quanto ritenessero gli stessi repubblichini: l’arresto, quasi per intero, del gruppo dirigente del partito socialista. Nella rete, grazie a spie ed infiltrati, erano finiti Alessandro “Sandro” Pertini, Giuseppe Saragat, Luigi Andreoni, Carlo Bracco, Luigi Allori, Ulisse Ducci, Torquato Lunedei. Sfuggì solo, per puro caso, Pietro Nenni. I sette, ferri ai polsi, vennero trascinati e reclusi a Regina Coeli, in attesa del processo.
Furono i responsabili dell’organizzazione militare romana a liberare i loro compagni, per di più senza colpo ferire: la “Brigata Matteotti” guidata da Giuliano Vassalli (nato a Perugia nel 1915, morto a Roma nel 2009; figlio dell’avvocato Filippo, un liberale) e da Peppino Graceva. Il primo, che si era diplomato al liceo classico “Annibale Mariotti” di Perugia e poi si era iscritto e laureato, nel 1936, alla Sapienza di Roma, negli anni universitari aveva simpatizzato per il fascismo, dal quale si era successivamente allontanato sposando l’idea socialista ed entrando nell’agosto del 1943 nel CNL. Vassalli e Giannini, grazie anche al coraggio di Marcella Ficca in Monaco, moglie di Alfredo, medico di Rebibbia, di Peppino Sapiengo, dell’avvocato Filippo Lupis ed altri partigiani elaborarono un piano “pulito” ma audace e rischioso. La prima mossa fu quella di far trasferire i sette in un’ala del carcere meno afflittiva: dal braccio tedesco a quello italiano. Poi, con la collaborazione di un agente di custodia dell’ufficio matricola, gli organizzatori dell’evasione ottennero i moduli originali per gli ordini di scarcerazione e i timbri del tribunale di Roma in maniera da poter fabbricare documenti falsi ma credibili.
Un primo colpo di fortuna fu quello che il fascicolo processuale dei sette si trovasse alla Procura generale militare del tribunale Supremo, dove doveva essere ancora completata la traduzione di tutti gli atti dal tedesco all’italiano. Vassalli ed il suo amico Massimo Severo Giannini, che conoscevano la lingua di Goethe ed avevano prestato servizio in quegli stessi uffici prima dell’8 settembre ’43, si presentarono per la traduzione delle carte ed ottennero l’incarico. Il piano stava per entrare nella fase più delicata: la formazione dei documenti di scarcerazione e la loro consegna alle autorità carcerarie. Vassalli e Giannini (poi entrambi giuristi di primissimo piano) scelsero, come motivazione per la liberazione, “perché concessa la libertà provvisoria”. Nel pomeriggio del 24 gennaio 1944 la documentazione completa fu consegnata ad un agente di guardia al carcere, perché la consegnasse, con urgenza, al direttore. Quest’ultimo non nutrì alcun sospetto, ma ebbe lo scrupolo, essendo vicina l’ora del coprifuoco (che scattava alle 19), di rimandare il tutto all’indomani mattina. La signora Marcella, insistette: “Le famiglie li attendono…”, fece notare, con garbo.
Il direttore, che godeva del titolo di commendatore, si arrese: “Bene, ma prima debbo mettermi in contatto con la questura…”. Seconda opportunità favorevole: le linee telefoniche dell’intera zona, al momento, risultarono in tilt. Per cui l’avvocato Lupis, la signora Marcella e il Sapiengo si spostarono a Trastevere nella caserma Pai (Polizia Africa Italiana), che fruiva di un collegamento diretto con la questura. Qui un tenente concesse all’avvocato Lupis di effettuare una telefonata (“Sa, deve parlare con una sua cara amica”, spiegò, in maniera convincente, la signora Marcella). Ovviamente il legale approfittò della disponibilità dell’ufficiale per chiamare, spacciandosi per il funzionario di turno della questura, il direttore di Rebibbia, al quale comunicò, con voce contraffatta, che avrebbe atteso lui stesso (erano le 18,35) gli scarcerati per le incombenze burocratiche (firma dei documenti e comunicazione del luogo di residenza o domicilio). Così Pertini, Saragat (entrambi poi saliti fino alla carica di presidenti della Repubblica) e gli altri socialisti riuscirono a sfuggire alle grinfie dei repubblichini e della Gestapo. Grande fu la caccia scatenata, quando le autorità occupanti si resero conto della clamorosa evasione, per riprendere i fuggitivi, ma ogni sforzo si rivelò vano.
Se Pertini e gli altri fossero rimasti in cella nessun dubbio che sarebbero entrati, poche settimane più tardi, nelle liste dei prigionieri politici da fucilare, per rappresaglia all’attentato di via Rasella, alle Fosse Ardeatine. A cadere in mano ai tedeschi fu invece, qualche settimana dopo, lo stesso Vassalli. Trascinato nella famigerata palazzina di via Tasso e sottoposto a terribili torture, il futuro avvocato penalista di grido – ma soprattutto giureconsulto, professore universitario (ad Urbino, Padova, Pavia, Genova, Napoli, Roma), parlamentare, ministro, presidente della Corte Costituzionale – venne liberato, ancora con i pesantissimi postumi delle agghiaccianti sevizie, il 4 giugno 1944, poche ore prima dell’arrivo degli anglo-americani a Roma, per le pressioni di Pio XII da un lato e della famiglia Agnelli dall’altro. Ma questa, che pure meriterebbe di essere narrata e fatta conoscere alle nuove generazioni, è un’altra storia.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, futuri presidenti della Repubblica
Lascia un commento