Ci avete fatto caso? L’allocuzione #andràtuttobene con tanto di cancelletto davanti sembra quasi del tutto sparita dal lessico quotidiano e anche dalle immagini che in quantità sinceramente insopportabili vengono postate sui social. O quanto meno si è fortemente attenuato l’impatto emotivo che con quell’espressione si voleva suscitare. Il motivo? Abbastanza semplice: la sensazione che prende sempre più corpo fino a diventare certezza o timore (a seconda dei punti di vista) è che non è affatto vero che andrà tutto bene, quando tutto questo finirà o almeno ci consentirà uno straccio di ritorno alla normalità.
In quasi due mesi di confinamento, ci siamo pressoché abituati all’idea che a causa del virus tantissime persone saranno infettate e che questo provocherà tanti morti (siamo ormai quasi a quota trentamila). Una sorta di rassegnazione collettiva che, alla resa dei conti, si è trasformata in ineluttabilità: in parole povere, tutti abbiamo pensato (e continuiamo a farlo) che le cose dovevano (e devono) andare così. Centinaia di migliaia di casi, e qui si parla solo di quelli noti perché i cosiddetti asintomatici sono molti di più fino a superare qualche milione, e decine di migliaia di morti. Come una guerra, più di una guerra.
Da domani però le cose cambiano. Di poco, ma cambiano. Ci si potrà muovere nell’ambito della regione di residenza, sempre muniti di certificazione; si potranno visitare i congiunti, con tanto di fastidiose interpretazioni sul termine e successive integrazioni e sottili distinzioni: francamente uno spettacolo indegno di un Paese civile; si potrà correre o fare attività fisica in solitudine; alcune attività economiche potranno riaprire, altre continueranno a restare chiuse. Insomma qualcosa di diverso, sempre rispettando le prescrizioni e gli obblighi. Non bisogna illudersi: il virus è ancora ben presente e anche abbastanza forte da provocare ulteriori danni e lutti. Bisognerà imparare a convivere con il draghetto coronato per diverso tempo. E bisognerà adeguarsi con comportamenti ragionevoli e improntati alla massima tutela di se stessi e degli altri, chiunque essi siano. Intanto vien da chiedersi come mai in questi mesi non sia stata lanciata una campagna a tappeto per praticare il tampone e o il test sierologico su strati sempre più ampi della popolazione. In Veneto lo hanno fatto con ottimi risultati: evidentemente il censimento puntuale degli infetti, degli asintomatici e dei sani genera risultati positivi per evitare la diffusione del contagio. Si faccia anche nel resto d’Italia: siamo in ritardo, ma ancora in tempo. E comunque se non si comincia…
In questo quadro di necessarie restrizioni e limitazioni, si va consolidando il concetto che non andrà tutto bene. Le terribili statistiche ci aggiornano quotidianamente sulle vittime: migliaia di famiglia falcidiate negli affetti più cari e senza nemmeno la possibilità di dare l’ultimo saluto e degna sepoltura. Questo è l’aspetto più drammatico, ma ce ne sono altri ugualmente preoccupanti. Tanti hanno perso il lavoro e tanti non lo ritroveranno. Gli ammortizzatori sociali servono a fronteggiare l’emergenza, ma devono essere transitori: non si può pensare che i sussidi possano sostituirsi ad un’occupazione stabile e giustamente retribuita. Il precariato e il lavoro nero erano forme di sussistenza verso le quali si chiudeva un occhio o tutti e due, ma in qualche modo garantivano un po’ di reddito a tantissime persone. Qui non si stanno difendendo i grandi e sistematici evasori (che vanno puniti pesantemente ovunque si trovino e qualunque cosa facciano), ma tanta gente attraverso lavoretti e prestazioni occasionali riusciva a portarsi a casa 5-600 euro al mese, giusto il minimo per sopravvivere: oggi quelle entrate non ci sono più e molto probabilmente non ci saranno più in futuro. Si rischia una vera e propria bomba sociale.
E’ vero, il panorama è per molti versi sconfortante, però qualche buona notizia comincia a circolare. In tutto il mondo sono centinaia i centri di ricerca che stanno lavorando contro il coronavirus. Usando metodologie e approcci differenti, alcuni si stanno concentrando sulla cura, altri sul vaccino. Nel primo caso, è fondata la speranza che entro fine anno si possa disporre di protocolli terapeutici adeguati: insomma, se proprio il Covid-19 non vorrà risparmiarci, almeno avremo a disposizione farmaci capaci di combatterlo e di sconfiggerlo. Nel secondo, ci vorrà più tempo, probabilmente un annetto. A meno che, come spesso è accaduto nel corso dei secoli, non si realizzi la congiunzione fortuita o non scocchi in qualche scienziato l’intuizione giusta che permetterebbe una notevole contrazione dei tempi. Nel frattempo, continuiamo ad essere responsabili, seri e rispettosi delle norme: altrimenti, il confinamento sarà ancor più lungo e severo.
Buona domenica.
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