PERUGIA – Si spese, con competenza e con coraggio per assistere gli infetti e per portare comunque una parola, un sostegno umano ai moribondi. Spinto dalla sua passione medica, dalla sua salda religiosità, dalla sua profonda fede. Gentile da Foligno, si staglia, dal buio della storia (visse nella prima parte Trecento), come un antesignano dei medici e degli infermieri dei giorni nostri, in strenua, eroica lotta contro il Coronavirus (più di seimila contagiati ed oltre quaranta morti). Era nato a Foligno, Gentile – nel cui centro storico una palazzina in pietra rosa, con arcate e bifore, viene indicata, con tanto di lapide, come la sua casa – o forse nel contado. L’anno resta ignoto. Di certo veniva da una famiglia ricca o comunque agiata (il padre si chiamava Gentile di Giovanni, la madre Jacoba di Giovanni Bonimani) e venne mandato a studiare medicina a Bologna. La sua fu una carriera brillantissima: pare che avesse ereditato la prestigiosa cattedra del suo maestro, Taddeo Alderotti (a cui Dante accenna nel XII canto del Paradiso). Nel 1322 venne chiamato a Siena e tre anni più tardi a Perugia.
Il governo della città umbra, quando aprì la sua scuola medica (affiancandola a quella di diritto), lo ingaggiò – l’Università perugina veniva gestita, prima in Italia, dal libero Comune – regalandogli una casa in Porta Sant’Angelo e concedendogli, in segno di grande stima, la cittadinanza perugina (al tempo Perugia e Foligno si guardavano in cagnesco e scendevano spessissimo in guerra l’una contro l’altra). Qui rimase per oltre venti anni, tranne alcuni periodi trascorsi a Padova (quale docente dell’ateneo veneto e medico di fiducia del Signore della città veneta, Ubertino da Carrara) e qui pubblicò i suoi scritti medico-scientifici (i vari “Tractatus” e gli oltre 120 “Consilia”). Testi, tutti, considerati dei veri e propri manuali di medicina negli ambienti scientifici e accademici dell’intera Europa. Ancora in vita (ma pure per due-tre secoli dopo la sua morte) Gentile veniva etichettato come “speculator”, come “princeps medicorum”, addirittura come “divinus”. Conoscitore profondo della lingua latina e dell’araba aveva commentato sia Galeno, sia Avicenna.
Veniva riconosciuto esperto, in particolare, di fisiologia e di patologia delle urine. Sul piano pratico e sul livello teorico. Con la scarsa o inesistente tecnologia dell’epoca era in grado, dall’analisi delle urine, di diagnosticare se il paziente soffrisse di calcolosi renale, di nefropatia, o di malattie extra renali. Non solo, comunque: redasse tutta una serie di “Consilia” praticamente su ogni malattia: dalle affezioni degli occhi, a quelle degli orecchi (“ad sibilum auris”), dai disturbi dello stomaco alle pestilenze. Stimato (e amato) dalla gente comune, dal popolino e dai grandi: principi, cardinali, vescovi, perfino il prefetto di Roma, Giovanni di Vico, Signore di diverse città del Lazio e dell’Umbria (Orvieto e Terni).
Nel 1348 Perugia, come il resto d’Europa, venne investita dal terribile morbo chiamato “peste nera” (la stessa che fa da sfondo del Decamerone del Boccaccio), pare partita dall’Asia. Il medico – che aveva appena finito di scrivere uno studio proprio sulla peste dal titolo “Consilium in epidemia magna dum accidit Perusii” – non si chiuse in casa, ma cominciò a girare per i rioni della città prestando cure, fornendo consigli e medicinali, recando conforto ai moribondi. La terapia da lui consigliata si configura tanto semplice quanto efficace (come oggi con il Covid-19): abbandonare la città, isolarsi in campagna. Insomma, evitare il contatto umano per bloccare il diffondersi dalla pestilenza. Vi ricorda qualcosa questo parere medico? Purtroppo, Gentile contrasse il terribile morbo, che uccise nella sola Umbria circa 100mila persone; in Europa i 3/5 della popolazione). Appena si rese conto che il male lo aveva aggredito (il 12 giugno) Gentile si fece trasportare nella terra natia, il folignate, per la precisione a San Giovanni Profiamma. E, tra le pareti della sua abitazione, quattro giorni più tardi, aggiunse un codicillo al suo testamento, dettandolo davanti a diversi colleghi, amici e testimoni. Religioso come si professava (aveva frequentato, soprattutto, i frati agostiniani e aveva fatto costruire, a sue spese, un altare in onore di Sant’Antonio abate nel tempio di Sant’Agostino a porta Sant’Angelo) lasciò il legato di edificare, in un suo terreno coltivato a vigna, una edicola alla Vergine (successivamente denominata Santa Maria Nova). Si spense il 18 giugno.
Nella chiesa perugina di Sant’Agostino su una lapide (andata perduta) venne scalpellinata la frase “Sepulcrum medicinae doctoris magistri Gentilis de Fulgineo, civis Perusii”. Poco più di cento anni fa, il 7 luglio del 1911, l’Università di Perugia gli dedicò un busto. Ma forse sarebbe il caso di rinnovare e di celebrare il suo ricordo, magari con un premio a suo nome da consegnare agli eroi dei nostri giorni.
Elio Clero Bertoldi
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