RIETI – E’ ormai assodato che l’Italia non sia un Paese per giovani, ma proprio i più giovani sembrano avere le idee più chiare rispetto al passato. Nell’ultimo studio sulle giovani generazioni pubblicato dall’Istituto Toniolo, la generazione Z (cioè quella che viene dopo i cosiddetti millennials e che comprende i nati tra il 1995 e il 2012) ha indicato come priorità per trovare lavoro nell’ordine la capacità di adattarsi, l’acquisizione di competenze avanzate digitali, un titolo di studio; i giovani hanno capito che viviamo in un mondo che cambia continuamente, che un titolo di studio è importante per trovare un lavoro ma che non basta e c’è bisogno di formarsi continuamente, di aggiornarsi, di rimettersi in discussione ed essere intraprendenti.
“I giovani cercano lavoro attivamente e mettono in campo tutta una serie di microstrategie per muoversi nello spazio ristretto che viene loro offerto dal mondo del lavoro e dalla società civile. Vogliono lavorare, ma hanno l’aspettativa di un lavoro di buona qualità e possibilmente stabile. alcuni però sono scoraggiati, dopo aver affrontato una serie di esperienze negative”, spiega Sonia Bertolini, professoressa associata di Sociologia del Lavoro all’università di Torino e autrice del libro “Italia: Giovani senza futuro?”, edito da Carocci. Dalle oltre 400 interviste fatte a persone tra i 18 e i 34 anni di 9 paesi europei, raccolte nel libro, emerge come i giovani individuino in un lavoro stabile e un reddito sicuro la chiave per la propria autonomia economica e abitativa e per poter progettare una propria vita autonoma, ma il contesto istituzionale nel quale si trovano non permette loro di capire quando e come raggiungere tali obiettivi. “E così – aggiunge Bertolini – l’uscita dalla famiglia di origine in molti casi non è solo più posticipata, come emergeva da precedenti ricerche in Italia, ma è spostata molto in avanti ed è più sognata che progettata”. In condizioni di elevata incertezza i giovani mettono in atto meccanismi di “sospensione della decisione non solo rispetto a quelle che riguardano le transizioni alla vita adulta, ma anche per scelte nel breve periodo, in cui diventano problematiche le decisioni da prendere autonomamente”.
Dunque cosa fare per rendere l’Italia e il mercato del lavoro a misura di giovani? Gli esperti hanno individuato principalmente nei supporti di politica attiva e nell’investimento in ricerca e sviluppo e in formazione le strade da percorrere nell’immediato. Innanzitutto l’Italia è chiamata a un’inversione culturale che porti a pensare alle nuove riforme da adottare. “Oggi – spiega il demografo Alessandro Rosina, abbiamo un mercato del lavoro frammentato, labirintico, flessibile senza strumenti che tutelino e accompagnino. E il primo intervento da fare è pianificare politiche attive di tutela e supporto, a partire dall’orientamento. I giovani, ancora oggi, non ricevono abbastanza informazioni su come funziona il mercato del lavoro, su quali sono le competenze più richieste dal tessuto produttivo e dunque nei momenti-chiave di scelta: a 14 anni quando si decide a che scuola superiore iscriversi e a 19 quando si decide se cercare lavoro o andare all’università (e in questo secondo caso, cosa studiare all’università) i giovani sono lasciati soli. Inoltre occorrerebbe investire in formazione, ricerca e sviluppo”. “Oltre che in formazione, occorrerebbe che le imprese investano in ricerca e innovazione e riconoscano il valore delle competenze”, suggerisce la professoressa Chiara Saraceno che aggiunge: “Le imprese, invece che pretendere che la scuola formi persone con le precise qualifiche che servono loro, salvo non preoccuparsi del loro destino se e quando queste diventano obsolete o i lavoratori ridondanti, dovrebbero da un lato collaborare con le scuole, sfruttando l’alternanza scuola-lavoro, offrendo laboratori, tirocini, stage, dall’altra pensare alla formazione all’ingresso e poi nel corso della vita lavorativa come una loro specifica attività. Tenendo sempre presente che nel mercato del lavoro presente e futuro quasi mai basterà saper fare bene una cosa, avere un mestiere specifico. Sarà invece necessario essere duttili, avere le capacità, e le conoscenze di base, necessarie per apprendere cose nuove”.
In Italia il rapporto scuola-lavoro non esiste, e quando esiste è conflittuale. La Buona scuola (la riforma che ha istituito il meccanismo dell’alternanza scuola-lavoro) aveva qualche buona intuizione, ma come spesso succede l’attuazione ha lasciato a desiderare. Per ridurre il disallineamento tra domanda e offerta, Alessandro Rosina suggerisce di agire su tre punti chiave della transizione scuola-lavoro: formazione; risolvere l’inefficienza dei canali di reclutamento, troppo spesso informali e fondati su conoscenze e segnalazione, e non sistemici e fondati su buona formazione e sull’incontro di competenze acquisite e richieste; rendere più efficaci ed efficienti le interazioni tra piccole e medie imprese e scuole e servizi per l’impiego in modo da potenziare sul territorio la formazione di competenze utili.
Stefania Saccone
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