PALERMO – Dal regista Steven Spielberg, mostro sacro del cinema statunitense, ci si sarebbe aspettato qualcosa di più. The Post infatti non ha ricevuto alcun Oscar a Los Angeles, nella notte tra il 4 e il 5 marzo scorsi. Una possibile spiegazione del mancato riconoscimento potrebbe essere questa: Spielberg, regista di capolavori come ET, Jurassic Park, Salvate il soldato Ryan, dà il meglio di sé nel confezionare storie con una più robusta e intrigante trama narrativa.
Ma cosa, nel film, non ha funzionato? Soprattutto il primo tempo, con qualche scena di troppo e un’interpretazione un po’ troppo sopra le righe da parte di Tom Hanks del personaggio di Bad Bradlee, direttore del Washington Post. Il film cresce invece nel secondo tempo quando la vicenda – la pubblicazione nel 1971 dei Pentagon Papers, i documenti segreti sulla valutazione reale, per nulla ottimistica, da parte del Dipartimento della Difesa del Pentagono, delle sorti della guerra in Vietnam – assume un ritmo narrativo più fluido, veloce e avvincente. Molto brava Meryl Streep nel ruolo di Katharine Graham, proprietaria del Washington Post (sebbene il tono flebile e lamentoso del doppiaggio in italiano non renda onore alla sua interpretazione); buone anche le prove degli altri attori, in particolare quella di Bob Odenkirk, nelle vesti di Ben Bagdikian, assistente redattore al Post, il giornalista che rintraccia lo studioso in possesso dei documenti scottanti già pubblicati dal New York Times.
Il film ha comunque un grande merito: quello di accendere i riflettori sull’importanza della libertà di stampa e sul ruolo insostituibile dei giornalisti competenti e coraggiosi nel controllare il Potere. Ruolo ancora più prezioso oggi, quando si tende a mettere sullo stesso piano il post estemporaneo e sguaiato su un social network con l’articolo di uno specialista, specie se frutto di indagine rigorosa e di pensiero critico. Commuove e convince infine l’epilogo del film, che racconta la solidarietà di tante testate americane verso il Washington Post e il verdetto finale della Corte Suprema americana che, a maggioranza, assolve il New York Times e il Washington Post, affermando che la stampa non è destinata a servire coloro che governano, bensì quelli che sono governati.
Maria D’Asaro
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