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L’Italia non è proprio un Paese per giovani

di | 2020-02-06T23:41:30+01:00 9-2-2020 6:15|Attualità, Sezione 4|0 Commenti

RIETI – La riflessione nasce dalla lettura di un articolo sulla situazione dell’occupazione giovanile nel nostro Paese. L’articolo si riferiva a dati Istat aggiornati e risalenti a marzo 2019 dai quali si evidenziavano cifre e percentuali apparentemente rassicuranti circa l’occupazione che vedeva una crescita al 58,9% (il dato più alto, secondo l’Istat, degli ultimi 10 anni) e un calo di quello della disoccupazione, scesa al 10,2%. Queste cifre, calate nella realtà, indicano circa 60mila occupati in più, di cui 46mila con esperienza lavorativa, occupati con contratti a termine, in via di stabilizzazione e 14 mila lavoratori autonomi e collaboratori. In questo quadro c’è stato un leggero miglioramento anche per i giovani: il tasso di under 25 senza un impiego è sceso al 30,2%, il dato migliore da agosto 2011; nella fascia tra i 25 e 34 anni è salita un po’ l’occupazione, per l’assunzione di under 35 (estesa da gennaio 2019 anche gli under 30).

Ma, seppure in leggero miglioramento, la situazione del lavoro in Italia e, in particolare, dei giovani, resta critica, come emerge dalla comparazione con il più ampio quadro europeo. Per quanto riguarda gli under 35, il tasso di disoccupazione dell’Italia è inferiore solo a quello di Grecia e Spagna, quasi il 25% in più rispetto a Germania , Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Nel complesso, quindi, l’Italia continua a schiacciare le giovani generazioni. Rispetto al 2008, “i disoccupati sono aumentati di 2,8 punti percentuali, gli inattivi sono diminuiti del 2,7%, è aumentata la percentuale di occupati a rischio povertà, persone che, pur avendo un lavoro, guadagnano meno del 60% del reddito mediano nazionale; sono aumentati i lavoratori con contratti a termine, che vivono quindi in una condizione di maggiore instabilità rispetto al proprio posto di lavoro; è peggiorata la situazione lavorativa dei giovani, che registrano livelli di occupazione inferiori a quelli dei lavoratori anziani e c’è un’alta percentuale di Neet (“Not in education, employment or training”) cioè persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione)”.

La crescita occupazionale che c’è stata in Italia nel 2018 è stata “a bassa intensità lavorativa” e ha riguardato lavori poco qualificati: il numero delle persone occupate è aumentato tornando ai livelli del 2008, ma hanno lavorato meno ore, il 5,1% in meno rispetto a dieci anni fa, e rispetto agli altri paesi Ue, si trova difficilmente occupazione nei settori della sanità, dell’istruzione e della pubblica amministrazione. Questo si traduce in una crescita del fenomeno degli occupati – 5 milioni 569 mila, il 24,2% del totale – che hanno un’istruzione superiore rispetto al lavoro che svolgono e che porta spesso i più giovani a cercare lavoro all’estero.

“La genesi di questa situazione va ricercata nelle riforme che si sono susseguite dalla seconda metà degli anni Novanta in poi che, più che mirare a migliorare la condizione delle nuove generazioni nel mondo produttivo, hanno puntato soprattutto a consentire alle imprese di offrire contratti al massimo ribasso e con facile disimpegno verso i neo assunti”, spiegano la sociologa Chiara Saraceno e il demografo Alessandro Rosina. Cioè, invece che creare crescita e sviluppo, miglioramento di prodotti e servizi attraverso il capitale umano e la capacità di innovazione delle nuove generazioni, le aziende sono state incentivate a resistere sul mercato tenendo basso il costo del lavoro e sfruttando il più possibile i nuovi entranti. Si è preferito così prendere il giovane disposto a farsi pagare di meno che quello con potenzialità su cui investire per migliorare produttività e competitività dell’azienda. E’ stato favorito un sistema che si è avvitato verso il basso, producendo allo stesso tempo scarse opportunità per i giovani, poca crescita e crescenti diseguaglianze sociali e generazionali: il fatto di detenere il record in Europa della percentuale di giovani che vorrebbero lavorare ma non trovano occupazione ne è la conferma.

La crisi economica ha poi peggiorato questa situazione. “Con la crisi e la crescente competizione sui bassi salari dei paesi emergenti – aggiunge Chiara Saraceno – questa soluzione ha mostrato tutta la sua fragilità. E a pagarne il costo sono stati appunto soprattutto coloro che stavano per entrare nel mercato del lavoro, i giovani, tanto più se a bassa istruzione o con qualifiche non spendibili su un mercato del lavoro insieme asfittico e in via di trasformazione”.

l problema è dunque a monte e riguarda il ruolo che il nostro Paese vuole dare ai giovani. “Oggi più che in passato – commenta Rosina in un panel dal titolo ‘Giovani e lavoro: il futuro negato’ nel corso dell’ultima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia – attraverso le nuove generazioni le società sperimentano le innovazioni di un mondo in costante trasformazione e l’Italia è un paese che non ha ancora deciso cosa vuole essere nel XXI secolo”. L’Italia insomma dovrebbe decidere in che settori e attraverso quali strumenti svilupparsi. In questa cornice, le nuove generazioni dovrebbero essere la risorsa principale per realizzare tali obiettivi nei prossimi 10 o 20 anni. “Invece – prosegue Rosina – il paese naviga a vista, le aziende navigano a vista e i giovani si devono adattare alla situazione che trovano. Oltre che economica e di politiche del lavoro, la questione ha anche una dimensione esistenziale, culturale e sociale: cominciare a considerare i giovani un soggetto collettivo su cui investire collettivamente per produrre sviluppo e crescita, come avviene negli altri paesi europei, e non come figli da proteggere, un bene privato dei genitori da proteggere”.

“E metterli – continua – nelle condizioni di poter costruire un proprio progetto di vita perché l’obiettivo di un paese dovrebbe essere quello di mettere i cittadini nelle condizioni di progettare il proprio futuro per realizzare pienamente i propri obiettivi di vita. Se il contesto non ti aiuta, come fai oggi a prenderti degli impegni per costruirlo? Per potersi costruire un proprio percorso di vita ci vuole una mappa che dia delle coordinate per potersi orientare. Se quelle che trasmettono le generazioni precedenti sono false e sbagliate perché obsolete, ci si perde subito. devi avere un sistema di orientamento che tu possa aggiornare continuamente e adattare in funzione di come il mondo cambia, dei desideri di ciascuno e degli obiettivi di vita”.

E di tutto questo in Italia non c’è proprio traccia. Almeno per ora.

Stefania Saccone

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