Marieke Vervoort era nata a Diest (Belgio) il 10 maggio 1979; a 14 anni le avevano diagnosticato una rara malattia degenerativa neuro-muscolare e da allora aveva convissuto con il suo male combattendolo con tutte le sue forze. Si era dedicata allo sport, in particolare al paratriathlon (due volte campionessa del mondo) per poi passare all’atletica leggera quando le sue condizioni fisiche erano peggiorate. Alle Paralimpiadi di Londra 2012 vinse una medaglia d’argento nei 200 metri categoria T52 (dove stabilì anche un record europeo) e una medaglia d’oro nei 100 metri categoria T52; nel 2015 ai campionati mondiali di Doha si aggiudicò la medaglia d’oro nella sua categoria nei 100, 200 e 400 metri. L’ultima apparizione agonistica nel 2016 quando partecipò alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro, vincendo la medaglia d’oro nei 400 metri e quella di bronzo nei 100.
Marieke se ne è andata il 22 ottobre 2019: nel 2008 firmò i documenti per l’eutanasia (che in Belgio è diventata legale nel 2012) e martedì scorso le è stata praticata l’iniezione letale, dopo che le sue sofferenze fisiche erano diventate ormai insopportabili. “Non ho più paura della morte – spiegava ai suoi amici -. Si va a letto e ci si mette a dormire. L’unica differenza è che non ci si sveglia più”. Finché ha potuto, ha lottato spalla a spalla con le rivali per le medaglie alle Paralimpiadi; finché ha avuto le forze, ha combattuto anche per stare ancora in questo mondo ma, quando non ce l’ha più fatta, ha staccato la spina. E’ morta nella sua piccola cittadina, Diest, circondata dai suoi cari e dall’amica fidata a quattro zampe: la labrador Zen, capace di anticipare di un’ora i suoi ormai sempre più frequenti attacchi epilettici.
Proprio il fatto di avere una via di scampo, le ha allungato la vita: “Se non avessi in mano i fogli per praticare l’eutanasia, probabilmente mi sarei suicidata già da tempo – rispondeva decisa a pochi giorni dal termine della Paralimpiade di Rio 2016 -. Tutti i paesi devono capire che non si tratta di omicidio, l’eutanasia è una cosa positiva che può farti ritrovare la pace perduta”. La malattia l’aveva svuotata e lei ormai non ce la faceva proprio più a perdere ciò che prima per lei era quotidianità, non solo nello sport: “Anni fa ero una bravissima disegnatrice, ora non più. La mia vista si è ridotta al 20%, ho diversi attacchi epilettici e a volte sono costretta ad interrompere gli allenamenti perché perdo conoscenza. Grazie all’eutanasia so che, quando sarà abbastanza, potrò farla finita”.
Una scelta per certi versi devastante, eppure condivisibile: quando corpo e mente non sono più controllabili, quando le sofferenze diventano indicibili e non più sopportabili, quando i medici dichiarano senza mezzi termini che non ci sono più speranze e che si possono solo allungare i tempi dell’agonia, allora la decisione di andarsene volontariamente ha un senso profondo di rispetto verso se stessi e anche verso le persone care. E’ vero, ci sono implicazioni etiche e religiose, ma su tutte deve prevalere la volontà del diretto interessato e, qualora non fosse più in grado di intendere e di volere, di coloro che lo circondano. Punto.
“Voglio che venga fatto un museo a mio nome – diceva la campionessa delle Fiandre – e che sia d’ispirazione per chi andrà a visitarlo. Ho collezionato tutti gli articoli e i servizi televisivi che mi riguardano e spero che la mia storia possa essere d’insegnamento”. Ma la frase più significativa è un’altra: “Voglio che la gente pensi a me come la ragazza che rideva sempre”.
Buon viaggio, Marieke.
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