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Gli Umbri? Il popolo più antico d’Italia

di | 2019-08-03T12:07:11+02:00 4-8-2019 6:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

PERUGIA – Gli Umbri sono il popolo più antico della penisola. “Umbrorum gens antiquissima Italiae existimatur” (la popolazione umbra viene ritenuta la più antica d’Italia), sosteneva, infatti, Plinio il Vecchio. Nella letteratura latina ricorre la definizione “tardus umbrus” riferito all’agricoltore, al contadino, che alcuni traducono come tardo di comprendonio; in realtà tardus richiama anche il significato di lento, riflessivo, compassato. Dunque, austero.

Gli studiosi di archeologia e di glottologia, come Laura Bonomi Ponzi e Augusto Ancillotti, umbri di oggi, ritengono che questo popolo indoeuropeo sia arrivato al di qua delle Alpi intorno al 1300-1200 avanti Cristo e che si sia stanziato in un area compresa tra i fiumi Po, Tevere ed Esino, quindi in Emilia, Romagna, Marche, Umbria, anche Toscana. Gli Etruschi, al loro arrivo (più tardo), conquistarono nel tempo 300 città umbre, spingendo al di là del Tevere questa antica etnia. Tra le città fondate dagli umbri figurano Assisi, Foligno, Gubbio, Narni, Spoleto, Spello, Bevagna, Gualdo Tadino, Tiferno (Città di Castello), Todi, Bettona e, sul versante Adriatico, Fano, Ancona, Camerino, e, ancora più in alto, Rimini, Ravenna, Budrio, pare persino Mantova. Contatti stretti da un punto di vista linguistico, economico e militare venivano tenuti con i Sabini, loro affini anche per la lingua: osco-umbra.

Narni fu la prima colonia umbra di diritto latino nel 299 a.C.; dopo la battaglia di Sentino, del 295 a.C., gli umbri vennero sottomessi da Roma, mantenendo comunque costumi e religione. Nel 220 fu costruita la via Flaminia che passava (e passa ancora oggi) in pieno territorio umbro e arrivava, attraversando le Gole del Furlo (con tanto di galleria scavata ai tempi di Vespasiano) sino al mare all’altezza di Fano. Durante il periodo repubblicano di Roma gli storici citano la presenza di 44 città umbre tra municipi e colonie. Quando Annibale scese nella penisola gli umbri, nonostante le sconfitte subite dagli eserciti romani alla Trebbia e al Trasimeno, rimasero fedeli a Roma.

Di questa gente dedita all’agricoltura, all’allevamento e alle armi parla un documento in bronzo: le “Tavole iguvine”, trovate a Gubbio ed esposte nel locale museo. Vennero alla luce nel 1444 nelle vicinanze del Teatro Romano. Un atto notarile documenta la vendita, datata nel 1456, di questi sette, singolari, reperti fatta da un certo Paulus Greghori (secondo altre fonti da una donna, tale Presenzina) al gonfaloniere e console della città, presente il cancelliere Guerriero che compila il rogito. Il venditore incassò una bella somma: 40 fiorini d’oro. Questa compravendita di registrò al tempo di Federico da Montefeltro, nato a Gubbio nel 1422, uno dei grandi signori, condottieri e mecenati del Rinascimento, che oltre ad Urbino possedeva una sua elegante residenza pure nella città umbra, in cui era nato.

Il professor Ancillotti, che ha tradotto il testo di quello che è risultato essere un documento liturgico, ha chiarito come le sette facciate e mezzo (le lastre, quasi tutte, sono incise sia davanti, sia dietro) siano state compilate in grafia etrusca e le altre quattro e mezzo in grafia latina. E che, inoltre, sarebbero state tracciate da mani diverse e in tempi diversi. I fori di affissione che presentano sarebbero stati operati, invece, all’epoca di Augusto, per esporre le tavole nel foro. In genere ogni lastra, tutte di forma rettangolare, pesa poco più di 7 kg; la più grande è di 15,920 kg, la più leggera di 2,590 kg. 

Le tavole riportano cerimonie e preghiere per la purificazione della città; per la lustrazione dell’esercito; norme in caso di auspicio avverso e persino i modi con i quali sacrificare gli animali (bovini, ovini, suini e perfino un cane).

Si evince che, all’epoca, Ikuvium, cioè Gubbio, presentava tre porte nominate, rispettivamente Tessenaca, Vehia, Trebulana. Preghiere indirizzate agli dei riguardavano anche una non identificata Rocca Fisia. 

Per queste cerimonie le città-stato federate – che quanto meno andavano dall’Umbria fino al Piceno nelle attuali Marche – si ritrovavano, in tempi stabiliti, con rappresentanze religiose, civili e militari a Gubbio. Provenivano pure dall’altro versante degli Appennini cioè dal territorio di Camerino, Macerata, Tolentino. Tutte queste tribù prendevano parte ad una processione che saliva verso le grotte (considerate come santuari), attraverso una “via Sacra”, probabilmente sul Monte Ingino, seguendo il percorso, almeno in gran parte, che coprono oggi i Ceri, nella loro incredibile, travolgente corsa. Contro i nemici venivano invocate terribili maledizioni: in particolare contro gli Etruschi, i Tadinati (che, sebbene, umbri – Gualdo Tadino è vicinissima a Gubbio – evidentemente non erano inseriti nella federazione), contro i Naharchi (forse gli abitanti della Valnerina fino a Narni), gli Japodi (i pirati dalmati che saccheggiavano le coste adriatiche). Nel corso delle feste Cereali, celebrate nelle notti di luna piena, veniva sacrificato un cagnolino alla divinità di Hondo Giovio. Il testo precisa che nel rito dovevano essere utilizzati farina di farro, vino, sale macinato, un unguento, recipienti per sostanze liquide e solide. L’officiante aveva a disposizione persino un asciugamano per detergersi le mani.

Nelle cerimonie augurali, poi, veniva osservato il volo e ascoltato il canto di uccelli ben determinati: la cornacchia, l’upupa, il picchio, la gazza.

Tra i cibi ricorrenti consumati da questo popolo si cita un pane di farro, una sorta di polenta-pasticcio (i cui ingredienti erano farro, uova, formaggio, strutto), verdure e olive trattate con una sorta di salamoia. Forse la crescia attuale, golosità degli eugubini, deriva da quegli impasti. 

Le divinità più importanti e maggiormente invocate del pantheon umbro risultano essere Iupater, Mart e Vofione, rispettivamente indicanti il potere sacerdotale, quello militare e quello economico. Curiosamente nelle tavole non viene elencata e indicata la dea Cupra, di cui invece si hanno numerose testimonianze archeologiche sia sul versante umbro, sia su quello marchigiano. Addirittura nelle lastre vengono riportati i nomi anche di due famiglie eugubine: la prima si chiamava Vovicia, l’altra Petrunia. L’umbro più noto è Tito Maccio Plauto (250 aC -184 aC) le cui opere, in latino, hanno superato i secoli. Il commediografo proveniva da Sarsina, città della tribù dei Sarsinates, proveniente da Perugia e insediatasi nella valle del fiume Savio in piena Romagna appenninica, per sfuggire alla pressione degli etruschi.

Elio Clero Bertoldi

Nell’immagine di copertina, il territorio occupato dagli antichissimi Umbri

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