BOLLATE (Milano) – L’indirizzo è a Bollate, cintura metropolitana di Milano, in via Cristina Belgioioso, 120 e l’edificio in cui si trova il ristorante è un carcere, una grande struttura di cemento con finestre molto piccole e recinzione molto alta. Si tratta di uno degli istituti penitenziari più all’avanguardia in Italia dove, da tempo, si rieduca attraverso l’apprendimento e lo svolgimento di tante attività, dall’orto botanico alla cura dei cavalli, dalla musica alla biblioteca (che è la più grande d’Italia, se non d’Europa, gestita benissimo dagli stessi detenuti).
Ed è proprio in questo carcere, ben visibile anche percorrendo l’autostrada Milano-Varese, che si trova il primo ristorante organizzato in Italia “dietro o dentro” le sbarre (scegliete voi la dizione che preferite, tanto il concetto è sempre lo stesso), il primo ed unico locale realizzato dentro le mura di una prigione ma aperto al pubblico esterno.
Il progetto è stato realizzato nel 2004 da Silvia Polleri, presidente della cooperativa sociale “Abc, La sapienza in Tavola”, con l’obiettivo di offrire posti di lavoro ai detenuti e gettare le basi per il futuro degli stessi perché, in realtà, l’intento non è dare solo l’opportunità di lavorare “dentro”, ma è la creazione di un ponte per il futuro, un collegamento quindi fra la realtà detentiva interna all’istituto e quella futura all’esterno dello stesso, un aiuto concreto al reinserimento degli ex detenuti nel tessuto sociale.
È successivamente, nel 2015, dopo undici anni dalla creazione del servizio di catering in cui già venivano impiegati i detenuti, che nasce l’idea di integrare l’attività di ristorazione con l’apertura di un locale all’interno della struttura penitenziaria, il primo ristorante all’interno di un carcere: una struttura d’integrazione sociale e di dialogo fra il carcere e il mondo esterno. In una delle varie interviste rilasciate e pubblicate sul web in merito a questa importante iniziativa, la presidente della cooperativa Silvia Polleri spiega che “la cosa più complicata è stata forse il nome da dargli. Poi ho avuto una folgorazione, le cose giuste sono quelle più ovvie. Così il ristorante che sta dentro il carcere lo abbiamo chiamato InGalera”.
Il ristorante InGalera è sobrio ma elegante e curato, a mezzogiorno c’è un pranzo veloce, piatto unico a 12 euro, i tavoli sono apparecchiati con tovagliette di carta, molto in linea con il contesto, poiché su ciascuna di esse è riprodotta la foto di una diversa prigione da Alcatraz a Dorchester per quanto riguarda i penitenziari d’oltralpe mentre per l’Italia sono riconoscibili l’Asinara, Poggioreale, l’Ucciardone, Regina Coeli e San Vittore. Per quanto riguarda la cena invece chi vuole prenotare un tavolo deve farlo con largo anticipo, i clienti sono accolti da un maitre che li segue, nel corso della serata, con garbo e gentilezza, chi ci va capisce subito che non si tratta di un ristorante ordinario, tutto è curato nei minimi particolari, dagli arredi al cibo e ai vini di qualità, l’atmosfera è elegante ed essenziale e non passano certo inosservati i manifesti alle pareti che ritraggono Sylvester Stallone in “Fuga per la vittoria”, Clint Eastwood in “Fuga da Alcatraz”, Tom Hanks in “Il miglio verde” e via dicendo.
Spesso i clienti chiedono alla signora Polleri se, effettivamente, tutti i camerieri sono anche dei detenuti e lei gentilmente spiega che il ristorante offre ai suoi avventori, fra l’altro, la possibilità di vedere, soprattutto a chi non si è mai posto il problema della detenzione, cosa significhi un buon percorso di riabilitazione che può consentire, successivamente, un più facile reinserimento dell’ex detenuto nel contesto sociale poiché, come giustamente sottolinea la Polleri, il vero fine-pena non è stabilito solo dai magistrati ma, sotto certi aspetti, anche dalla società.
Nel ristorante lavorano attualmente 12 detenuti in esecuzione di pena e due in affido al territorio, tutti assunti regolarmente, un maitre professionista, lo chef e la signora Polleri che arriva dalla scuola di cucina Alma di Gualtiero Marchesi. L’esperienza lavorativa svolta presso InGalera aiuta i detenuti che scelgono di svolgere questa attività a riappropriarsi o ad apprendere la cultura del lavoro con un percorso di formazione e responsabilizzazione che è anche un trampolino di lancio verso il mondo esterno. Da quando l’iniziativa ha preso piede, ben quattro detenuti, un numero che può sembrare esiguo ma che in realtà rappresenta un segnale importantissimo, dopo il percorso lavorativo interno, una volta scontata la pena, hanno trovato occupazione nel settore alberghiero e non “un lavoretto qualsiasi e nemmeno un part-time ma una vera assunzione a tempo indeterminato” precisa la Polleri. Infatti, nel carcere modello alle porte di Milano dove la riabilitazione passa attraverso la rieducazione alla cultura e alla dignità del lavoro, il tasso di recidiva è il più basso rispetto a tutti gli altri istituti di detenzione italiani.
Da circa un anno inoltre, il ristorante ha arricchito la sua offerta proponendo ai suoi clienti oltre ad una gradevole accoglienza e ad un’ottima cucina anche serate a tema del tipo: cene con delitto oppure presentazione di vini o serate culturali nelle quali intervengono i detenuti, le guardie carcerarie e gli operatori del settore. E’ un altro modo per far capire al pubblico l’importanza della riabilitazione per il successivo reinserimento nel contesto sociale.
L’eco dell’insolito ristorante ha varcato perfino i confini d’oltreoceano tanto che il New York Times ha mandato a Bollate un suo inviato per raccontare dal vivo la singolare esperienza lo stesso, evidentemente soddisfatto, ha concluso dicendo che, almeno una volta, in galera vale proprio la pena di entrare.
Silvia Fornari
Nella foto di copertina, il ristorante “InGalera” nel carcere di Bollate
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