PERUGIA – I reperti etruschi venuti alla luce l’8 aprile 1812 in un campo, coltivato a grano e ulivi da tempo immemorabile, in località San Domenico di Monticelli, terreno dei frati Olivetani di Monte Morcino, hanno trovato una degna collocazione, ormai da tempo, in una sala del Museo Nazionale Archeologico di Perugia, preparata in un primo momento per ospitare il Germanico di Amelia, poi trasferita nell’antica città, dove era stato recuperato.
Ma per queste testimonianze dell’antica civiltà etrusca bisogna ringraziare, una volta di più, Giovanni Battista Vermiglioli, perugino doc e primo docente di archeologia in Italia.
La scoperta del 1812 venne fatta dai contadini durante l’occupazione bonapartista. Le autorità francesi, come il prefetto Roederer e il viceprefetto Spada, ebbero subito dalle loro spie notizia del ritrovamento (già durante la notte dell’8 aprile) e spedirono sul posto funzionari e gendarmi, il cui arrivo fece scappare i contadini scavatori in ogni direzione. Bonaparte e i suoi generali erano molto “ghiotti” di reperti e di opere d’arte. E anche in questo caso razziarono quanto potettero. Se molti pezzi sono rimasti a Perugia lo si deve a Vermiglioli, che formalmente chiamato a stimare il tesoretto recuperato, ne minimizzò il valore (“… non ci presentano cose di molto interesse…), salvando il salvabile. Nonostante il furbo escamotage né Vermiglioli, né i francesi furono in grado di impedire che buona parte del materiale trovato venisse disperso (almeno un terzo del totale) anche attraverso antiquari senza scrupoli. A fronte dei 180 pezzi rimasti a Perugia, 68 ne finirono a Monaco di Baviera, 5 a Londra, 3 a Berlino, 3 a Parigi, 2 a Copenaghen, 2 a Mainz, senza contare le “rapine” singole dei vari generali bonapartisti.
Nella fossa furono rinvenuti parti di almeno tre carri (calesse, biga, carro trionfale), bronzi, alari, statuette, due elmi e altri frammenti che lasciano pensare ad un principe guerriero o a una ricca, aristrocratica famiglia, che avesse nascosto i propri beni per impedirne la razzia di un qualche nemico. I pezzi rimasti sono soprattutto, in bronzo e in ferro, ma la documentazione emersa degli archivi parla anche di una fiala d’argento, di una lamina d’oro, statuette di avorio lavorato, scomparse e in parte distrutte dopo il ritrovamento.
La qualità dei manufatti è “elevatissima” e di stile orientaleggiante (tra il 560 e il 500 a.C.). Gli studiosi hanno ipotizzato che i lavori siano opera di artigiani della Ionia già in collegamento commerciale con il mondo Etrusco o meglio emigrati – per sfuggire alla feroce pressione degli eserciti persiani – in Italia, dove aprirono laboratori di successo e di grido. Di cui ci restano i suggestivi, interessantissimi reperti di Perugia.
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