ENNA – “E’ una vergogna. E’ uno schifo…”. È l’urlo della mamma di Marco Vannini mentre si fionda verso il giudice che ha appena letto la sentenza a carico dell’assassino di suo figlio e dei suoi complici. Cinque anni appena, cinque anni per l’omicidio di un ragazzo di vent’anni, reo di amare la figlia del suo uccisore. Una pena assai mite rispetto ai quattordici della sentenza di primo grado. Un provvedimento che ha fatto discutere l’opinione pubblica, ha fatto gridare allo scandalo, ha sollevato un fiume di polemiche. La motivazione sta nella derubricazione del reato da una maggiore gravità a una minore: da omicidio volontario a omicidio colposo, non intenzionale. Un incidente, una fatalità sostiene l’imputato nell’aula del tribunale: stavamo scherzando, voleva vedere l’arma, io gli ho detto di no. Siccome lui me l’aveva tolta di mano, allora gli ho detto: te lo faccio vedere io come funziona. E ho caricato e ho sparato, ho premuto il grilletto… Io pensavo che non ci fossero proiettili”.
I fatti Marco Vannini, il 17 maggio 2015, si trova a Ladispoli, in casa della sua ragazza Martina Ciontoli per trascorrere una serata con lei e la sua famiglia. Sono presenti il padre della ragazza, Antonio Ciontoli, maresciallo della Marina, la madre e il fratello Federico con la fidanzata. Una serata come tante, il ragazzo chiede di potersi fare un bagno e gli viene concesso. E’ nella vasca da bagno quando il padre della sua ragazza spara il colpo. Il proiettile trapassa la spalla e gli esce da un fianco, razziando gli organi che incontra durante il suo percorso. Accorrono gli altri per capire cos’è stato quel sibilo di ferro e mentre discutono passano i minuti: finalmente Federico Ciontoli chiama il 118. “C’è un ragazzo che si è sentito male di botto, è divenuto troppo bianco. Non respira male. Si è spaventato moltissimo…”.
L’operatore non capisce il nesso, ancora qualche minuto e interviene la madre che biascica qualcosa, poi interrompe la chiamata. La situazione precipita, un’altra chiamata al 118: è lo stesso che ha premuto il grilletto a dire che Marco scivolando si è ferito alla spalla: un buchino, con un pettine a punta. Intanto Marco grida per il dolore, urla per la paura e piange incredulo. Anche i vicini percepiscono qualcosa, il lamento straziante di un ragazzo, ma non ne afferrano il significato. Marco chiama la mamma come un bambino, perché di fatto è poco più che un bambino.
Passano ancora minuti, l’ambulanza arriva; Antonio in ospedale ammette che quel buchino è un colpo d’arma da fuoco. Le condizioni del ragazzo si aggravano ulteriormente, per cui viene richiesto l’intervento dell’elisoccorso per trasportarlo al Gemelli di Roma. Inutile la corsa, inutile i tentativi dei sanitari di strappare alla morte un giovane, che non immaginava di andare quel giorno incontro alla sua fine. Alle 3.10 Marco viene dichiarato clinicamente morto.
Inizia lo strazio di una famiglia che è privata di un figlio; iniziano i guai per un’altra famiglia che cerca di coprire il misfatto. Un omicidio intrigato: un reo confesso e quattro persone sulla scena del delitto. Ognuno con la sua colpa, anche quella della fidanzata di Federico di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Deposizioni confliggenti, perizie tecniche, difese, accuse, intercettazioni ambientali. Intanto Marco se ne è andato: avrà vent’anni per sempre; Martina e i suoi parenti resteranno in carcere solo per tre anni. Il militare, colui che ha sparato per scherzo o per altro, se ne starà al fresco solo un lustro. Così ha voluto un tribunale.
Una vergogna, uno schifo e non solo per la madre di Marco. In molti rifiutano di riconoscersi in quella formula che apre ogni verdetto di giustizia. In nome del popolo italiano, la legge è uguale per tutti. Uguale per tutti? Sarà forse per la prossima volta.
Tania Barcellona
Nella foto di copertina, Marco Vannini con la madre
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