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Il guerriero-cronista e l’orrore di Famagosta

di | 2018-12-16T08:41:23+01:00 16-12-2018 6:15|Cultura, Sezione 4|0 Commenti

ORVIETO  (Terni) – La ferocia, la crudeltà, il sangue, la morte li aveva sperimentati sui campi di battaglia, ma quello che vide, dopo la resa ed il tradimento degli accordi di pace offerti da Mustafà Pascia, con la strage a freddo della delegazione degli assediati di Famagosta (nell’isola di Cipro) e poi le sevizie e addirittura lo scorticamento di Marcantonio Bragadin (a sinistra), ancora vivo, fu orrore allo stato puro anche per lui avvezzo alle atrocità della guerra. Ferito e finito tra i prigionieri, riuscì, ristretto in una cella della Torre del Mar Nero, terribile galera di Costantinopoli, a scrivere una approfondita relazione destinata ad Adriano Baglioni, fratello del suo comandante, Astorre Baglioni (a sinistra), decapitato con un colpo di scimitarra, inerme e a tradimento, dai giannizzeri del Pascià il giorno stesso della resa.

 

Angelo Gatto, i gradi di capitano se li era guadagnati sul campo, con atti di ardimento, prima a Nicosia e più ancora a Famagosta, dove era stato ferito due volte: alla gamba destra e ad una spalla, da una archibugiata. Partito come alfiere al fianco di Astorre al servizio di Venezia (non pare avesse militato in precedenza col condottiero perugino in Ungheria e Germania) Angelo era entrato, con pieno merito, nel novero dei capitani della roccaforte dell’isola di Cipro, assediata da più di 200mila ottomani per mesi e ultima a cadere tra le fortezze cipriote (si era salvato a Nicosia), quando gli venne affidata una compagnia, in seguito alla morte di Francesco Foresti di Venezia.

 

La famiglia di Angelo, originaria di Viterbo, si era trasferita a Orvieto nel 1495, per evitare l’annunciato arrivo delle truppe di Carlo VIII. Angelo, pur non essendo un letterato, scrive bene e dunque deve aver seguito almeno un corso di studi di buon livello. Lo evincono gli esperti dai termini e dalla architettura sintattica della sua relazione di 209 pagine terminate di scrivere il 29 novembre 1573, tra l’altro in una situazione di prigionia al limite della sopravvivenza: poco cibo, condizioni igieniche sconvolgenti, caviglie incatenate. Poche copie sono sopravvissute di questo straordinario documento, preciso, puntuale e persino molto tecnico sotto il profilo della strategia e della tattica militare. Un esemplare venne scovato dal sacerdote Policarpo Catizzani di Orvieto tra le carte del suo concittadino onorevole Giuseppe Bracci e pubblicato da un editore locale nel 1895.

 

Gatto fornisce, di proprio pugno, non solo la narrazione della storia della Guerra di Cipro, ma anche l’assedio di quasi un anno, fattosi ancora più asfissiante negli ultimi 157 giorni, il numero delle truppe ottomane (200mila uomini, 113 cannoni, 50 navi, contro le poche migliaia – intorno alle 8.000 unità – di difensori italiani, albanesi, greci), la strategia delle mine, le difese ideate in primis dal Baglioni, architetto militare, ma anche sagace e fantasioso stratega in grado di inventare pure singolari attrezzature difensive, come i “gattoli”, camminamenti di protezione a serpentina o le tavolette con chiodi acuminati piazzati sulla spianata davanti al forte per frenare, se non impedire, gli assalti della fanteria e della cavalleria del sultano Selim II (a destra).

 

Non solo. Snocciola, il capitano prigioniero, anche i nomi di tutti gli ufficiali presenti sul posto tra i quali molti umbri come il Conte Ranuccio di Montemarte di Corbara (Todi-Orvieto), Lodovico degli Atti di Todi, Federico Baglioni di Perugia, Francesco Stracco di Orvieto, Geronimo Gabrielli di Gubbio, Mignanopie di Perugia, Bernardino Raffaelli di Gubbio, Soldatello Galeazzi di Gubbio, Galgano Galgani di Città di Castello, Vincenzo di Perugia, Orazio della Camilla di Perugia, Scipione Alcherici di Città di Castello, Garolfo Montemarte di Titignano di Todi, Ercole di Perugia, Antonio Maria di Santii da Gubbio, Vincenzo di Perugia detto la Regina, quasi tutti morti, di spada, di lancia, di frecce, di archibugiate, di cannonate, di infezioni e malattie (gli assediati mangiavano, negli ultimi tempi,  pane raffermo, acqua torbida, gocce di aceto). Tutti aspetti, questi, che sono elementi conosciuti e accettati da chi sceglie il mestiere delle armi.

 

Ma si coglie, nelle frasi di Gatto, tutto il disprezzo e l’orrore per il comportamento disumano, efferato, atroce “del traditore Mustafà” che prima offre la resa e l’onore delle armi agli assediati e poi, una volta che se li trova davanti, senza difesa, di punto in bianco cambia atteggiamento e rivela il suo animo subdolo, feroce, peggio che animalesco.

 

E’ la fine di luglio del 1571. Lala Mustafà Pascià, allora settantenne, dopo gli incessanti e vani assalti costato circa 80.000 uomini, manda un legato con un messaggio: “Se vi arrendete avrete salva la vita e gli averi e potrete lasciare l’isola”. Marcantonio Bragadin (a sinistra) ed i suoi, che in precedenza avevano rifiutato di arrendersi, allo stremo dopo mesi di assedio e senza più viveri, decidono anche sollecitati  dalle autorità civili cipriote, di accettare la capitolazione. Una delegazione di comandanti capitanati da Bragadin, Astorre Baglioni, Luigi Martinengo e Andrea Bragadin, raggiunge – il 1 agosto – la tenda del Pascià con le chiavi della città. Sulle prime il comandante turco si mostra ospitale e gentile. All’improvviso, però, muta tono e atteggiamento contestando al Bragadin di aver ucciso, qualche giorno prima, alcuni prigionieri ottomani. Il veneziano  nega e invita l’interlocutore a verificare mandando nel forte i suoi uomini a controllare. Per tutta risposta il Pascià estrae la sciabola e tronca un orecchio del Bragadin e subito dopo ordina ad uno scherano di recidergli anche l’altro.

 

I capitani, intanto, vengono trascinati fuori della tenda e passati a fil di spada. Tra questi, oltre al Baglioni, anche Francesco Stracco, amico e concittadino di Angelo. Il trattamento riservato al Bragadin è ancora più agghiacciante: spintonato, gettato a terra, dileggiato, legato ad una colonna per una dozzina di giorni, quindi spellato vivo, infine decapitato. Un martirio sopportato dal veneziano con incrollabile fede cristiana. Addirittura la pelle viene ricucita, riempita di paglia e i poveri resti, rivestiti con abiti da cerimonia, posti in sella ad un cavallo e fatti girare per Famagosta, prima del trasferimento a Costantinopoli per essere mostrati al sultano Selim II, insieme alle teste dei comandanti di Famagosta.

 

I settecento superstiti, tra i quali Angelo, maltrattati in ogni modo e momento, vengono trascinati nella capitale turca: i soldati vanno incontro ad un destino di schiavi, gli ufficiali rinchiusi nel Bagno di Galata e poi nelle carceri di Castelnuovo (meglio note come Torre del Mar Nero). Il tutto mentre la Lega Santa batte e sbaraglia definitivamente, a Lepanto, la flotta turca (7 ottobre 1571). La pace e lo scambio dei prigionieri vengono stipulati nel marzo del 1573, ma si concretizzeranno solo nel luglio del 1575. Non si sa nulla del destino di Angelo Gatto e neppure se Adriano Baglioni ebbe modo di leggere il memoriale: il nobile perugino morì infatti nel corso di un torneo cavalleresco il primo aprile del 1574. Lo scritto lo analizzarono, invece, molto attentamente e con profondo interesse, a Venezia anche per le utili informazioni sulle forze, sul modo di combattere e la mentalità dei turchi e dei loro governanti.

 

La pelle del Bragadin, trafugata da uno schiavo veneziano nell’Arsenale di Costantinopoli, è conservata ancora oggi  in una chiesa di Venezia.

 

Elio Clero Bertoldi

Nella foto di copertina, la mappa di Famagosta all’epoca dell’assedio ottomano

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