NAPOLI – Qualche tempo fa, di fronte alla richiesta di cercare in un testo delle parole ed illustrarne il significato, uno studente, al primo banco e tra i più bravi della classe, alzò la mano e chiese se, quindi, doveva fare un disegno. Ci volle un attimo a comprendere che la sua domanda era assolutamente logica, e che nella sua testa questo termine era collegato alle “illustrazioni” di chissà quale libro della sua infanzia: quei disegni cioè che mostrano qualcosa dando luce alle parole. Certo difficile perché il loro bagaglio di immagini, di esperienze non è certo come quello di un adulto.
Non aveva nulla di banale perciò la sua domanda, soprattutto se si pensa che c’è chi ha affermato che qualsiasi disciplina può aiutare a scrivere, qualsiasi materia può essere tradotta in disegno: “la logica, la matematica, la teologia, la geografia, la storia, e senz’altro e in special modo l’italiano. Qualsiasi cosa vi aiuti a vedere, qualsiasi cosa vi induca a guardare”. Tempo fa una preside di una scuola, forte della convinzione che la scuola media è la “scuola del fare”, fece dirottare molte attività scolastiche nel disegno, nella trasposizione grafica dei contenuti che essi portavano. Si può immaginare cosa ne venne fuori. Plastici sull’”imbuto” della Divina commedia, disegni e navi costruite in legno sui viaggi di Ulisse, le battaglie di Napoleone con gli schemi di attacco (grande stratega quel piccolo uomo). Mappamondi, lucidi geografici, le scene di fiabe inventate dai ragazzi. Insomma un grande lavoro fatto con un grande scopo: amare il lavoro stesso, amare lo strumento con il quale un ragazzo poteva amare la propria scuola.
È questo che dovrebbe accadere a scuola ogni giorno, ed è questo ciò che è accaduto osservando i disegni che avevano fatto. Amare il luogo in cui uno s’impegna, lavora. Anche loro, gli studenti, lavorano. Ed è compito di ogni insegnante comunicare, facilitare, aiutare ad esprimere la bellezza che ciascuno di loro porta dentro. Nel lavoro fatto in classe, nella proposta di analizzare, fantasticare, tramutare la storia in segno si trova sempre grande soddisfazione, grande significato allegorico. Chi in tanti contesti, sia italiano o un alunno straniero, fatichi a capire e ad esprimere quello che è, in questo lavoro ha potuto mostrare una parte di sé, dicendo anche lui — compiutamente — ciò che ha imparato e capito.
È fuori di dubbio che non possa sempre essere questo, l’ora di lezione alle medie. Vero è, però, che l’esperimento fatto ha mosso diverse dimensioni della persona, legate e connesse tra loro, e ha mostrato la potenza che ha l’incontro reale tra le discipline, l’abitudine a porsi domande, a scovare i legami e ad osservare. Chissà se questo o il lavoro di illustrazione (nel suo senso grafico) del significato letterale delle metafore proposto all’inizio dell’anno si possano definire didattica laboratoriale, compiti di realtà o che altro; non si sa nemmeno se nella valutazione si possa misurare con precisione ciò che gli alunni hanno appreso, come invece si fa in altre occasioni. Si sa soltanto che, qualche tempo dopo, commentando il lavoro svolto anche l’alunno seduto all’ultimo banco, nascosto, timido, perplesso sulla valenza del disegno che aveva fatto ha potuto dire: prof, non so se va bene ma questo sono io.
È bello veder affiorare l’io più nascosto dei nostri studenti, soprattutto se ciò che accade tra i banchi di scuola è a tutti gli effetti un evento conoscitivo anche per noi. Molto triste vedere insegnanti che invece di facilitare un’espressione, una timidezza in un ragazzo, usano l’adolescenza altrui per raggiungere fini troppo vigliaccamente personali. Ideologie vaganti minano la scuola odierna. E così minano la serenità di alunni innocenti.
Innocenzo Calzone
Nella foto di copertina, una classe di qualche anno fa…
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