ENNA – Mio nonno era un comunista. Uno di quelli che credeva che falce e martello significasse ordine, giustizia ed equità. Mi faceva grandi discorsi di guerra e rivoluzione, di capitalisti e povera gente.
Indossò poco più che bambino l’uniforme dura di soldato e partì per la guerra. Tornò integro nel corpo, sbrecciato nell’animo. E inizio a piangere. Piangeva, piangeva sempre. E aveva paura. Paura dei tuoni, paura del buio, paura degli altri. Ricordo che ogniqualvolta infuriava un temporale si infilava nel lettone, papalina in testa e un grande scialle sulle spalle. Nero. Si copriva fin sopra gli occhi e nonostante fosse velato al mio sguardo, il sussulto del suo corpo lo tradiva.
Mio nonno mi conduceva per mano all’asilo, nei pressi dei Cappuccini e accompagnava il mio pianto al suo quando la maestra ci scioglieva. Non di rado si ritornava a casa insieme e per sottrarsi al rimprovero di mia madre e di mia nonna, mi portava con lui a fare qualche commissione o a sederci insieme, io acciambellata sulle sue gambe, dal suo amico Pasqualino che risuolava scarpe e raccontava storie affascinanti mentre l’odore del mastice ottenebrava i miei sensi. Mi perdevo nei loro discorsi fatti di terre, contrade, semine e raccolto e imprecazioni contro il malgoverno, le tasse e la miseria.
Mio nonno piangeva senza vergogna, piangeva davanti ai bambini dalle pance gonfie che i telegiornali proiettavano all’ora di pranzo, piangeva di fronte al dolore della gente, ai terremotati dell’Irpinia, al dolore di denti di mio fratello.
Il limite dei miei anni e il silenzio di chi mi doveva aiutare a misurarmi con il suo dolore non mi fecero capire allora il senso di quelle lacrime. Mio nonno era fragile, lo so solo adesso, ora che l’età e la storia mi hanno aiutato a capire cos’è la guerra, chi è vincitore e vinto, chi è stato ucciso e chi pur rimanendo vivo, è morto.
Con profondo affetto, mentre le mie lacrime rievocano le sue, la dedico al mio bellissimo nonno.
Tania Barcellona
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