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Tra sindaca, ministra e altri neologismi

di | 2024-10-11T11:29:19+02:00 13-10-2024 1:10|Attualità, Sezione 3|0 Commenti

VITERBO – In un mondo sempre più attento all’uguaglianza di genere, anche la lingua ha iniziato a cambiare per riflettere una società che si evolve. E così ci troviamo davanti a termini come “sindaca”, “presidentessa” e “ministra”. Ma perché ci suonano strani? E cosa dicono le regole della lingua italiana su questa “femminilizzazione” delle professioni? Facciamo una riflessione leggera, senza prenderci troppo sul serio, su come il vocabolario si sta adattando al mondo che cambia… O almeno ci prova.

Una questione di uguaglianza o di orecchio? Prima di tutto, partiamo da una constatazione: molte delle parole declinate al femminile suonano strane solo perché non siamo abituati a sentirle. “Sindaca” è una di quelle che spesso fa alzare più di qualche sopracciglio. Non sembra quasi naturale, vero? Eppure, in termini di correttezza grammaticale, “sindaca” è perfettamente legittimo. Le regole dicono che, in linea di massima, ogni sostantivo di genere maschile può essere declinato al femminile, soprattutto se si riferisce a una professione o carica che oggi può essere ricoperta anche da una donna. La forma femminile esiste, quindi, non perché qualcuno si è svegliato un giorno con la voglia di innovare la lingua, ma perché risponde a una logica grammaticale consolidata. D’altronde, se accettiamo “dottoressa” e “professoressa” senza fare una piega, perché “sindaca” sembra quasi un’imposizione?

Presidentessa, ministra e altre forme “al femminile” Un’altra parola che fa discutere è “presidentessa”. Alcune donne preferiscono mantenere il titolo al maschile, utilizzando “presidente”, ritenendo che il suffisso “-essa” sia riduttivo o poco autorevole. Ma secondo la grammatica, l’uso del femminile è assolutamente corretto. Parole come “presidentessa” o “ministra” non sono né errori né forzature, ma semplicemente declinazioni femminili di ruoli che, fino a poco tempo fa, erano considerati esclusivamente maschili. Ma perché allora resistiamo? Forse perché termini come “presidentessa” sembrano più carichi di significati sociali che linguistici. In alcuni casi, il suffisso “-essa” è stato utilizzato per ridicolizzare o sminuire (pensiamo a “maestrina”, con il suo tono quasi canzonatorio). Tuttavia, in linea teorica, non c’è nulla di scorretto. La parola femminile esiste per indicare un soggetto di sesso femminile. Quindi, almeno dal punto di vista grammaticale, il dibattito non dovrebbe nemmeno esistere.

E quando non c’è il femminile? Alcuni termini, però, sembrano fare resistenza. Per esempio, “ingegnere” o “architetto” raramente vengono declinati come “ingegnera” o “architetta”, anche se la grammatica permetterebbe tranquillamente questa trasformazione. Qui entra in gioco la questione della percezione. Alcune professioni, considerate tradizionalmente maschili, vengono difficilmente associate a una forma femminile. È come se ci fosse ancora un certo scetticismo nell’accettare che una donna possa svolgere quel tipo di lavoro. Ecco perché termini come “ingegnera” o “avvocata” fanno arricciare il naso a molti: non tanto per un problema di correttezza linguistica, ma per un’abitudine radicata. Tuttavia, se sempre più donne ricoprono questi ruoli, potrebbe essere solo questione di tempo prima che l’orecchio si abitui.

Cosa dice la lingua italiana? La lingua italiana, da manuale, non è sessista: è il parlante che decide di esserlo o meno. Le regole della nostra grammatica sono piuttosto flessibili e permettono di creare la forma femminile di molte professioni senza grandi sforzi. La famosa Accademia della Crusca ha più volte sottolineato che l’uso del femminile per le cariche pubbliche o professionali è corretto e raccomandabile. Sì, avete capito bene: raccomandabile.

Cosa ne pensano le dirette interessate? E poi ci sono loro: le donne che ricoprono questi ruoli. Alcune preferiscono il titolo al maschile, forse per mantenere una certa neutralità o autorevolezza. Altre, invece, abbracciano con orgoglio il femminile, vedendolo come un simbolo di emancipazione. D’altronde, chiamare una donna “sindaco” potrebbe sembrare una sorta di “pareggio al ribasso”, come se per ottenere autorità si dovesse rimanere all’interno dei confini linguistici maschili. Il dibattito, quindi, non è solo grammaticale, ma anche culturale e sociale. Tuttavia, come spesso accade, la lingua non è statica. Si evolve con i tempi, e quello che oggi sembra strano domani potrebbe diventare la norma.

Femminile e maschile: una questione di scelta La verità è che il linguaggio è uno strumento flessibile e, come tale, dovrebbe riflettere le scelte individuali. Se una donna preferisce essere chiamata “sindaco” o “presidente”, è una sua decisione. Allo stesso modo, chi si sente più rappresentata da “sindaca” o “presidentessa” ha il pieno diritto di usare questi termini. La grammatica, d’altro canto, è più permissiva di quanto pensiamo. La regola dice che possiamo e dovremmo usare il femminile quando ci riferiamo a professioni ricoperte da donne, ma non impone nulla. Quindi, in fin dei conti, la scelta è nelle mani delle persone.

In conclusione, termini come “sindaca”, “presidentessa” o “ministra” non sono errori né stranezze, ma semplici adattamenti di una lingua che cerca di stare al passo con una società in evoluzione. Potrebbe volerci un po’ di tempo per abituarsi, ma non dobbiamo dimenticare che il linguaggio si adatta a noi, e non il contrario. Se un giorno ci troveremo a dire “ingegnera” senza fare una smorfia, sapremo di aver fatto un passo avanti non solo nella grammatica, ma anche nella nostra mentalità. Fino ad allora, continuiamo a riflettere su come usare al meglio queste parole, tenendo a mente che il cambiamento inizia sempre dall’ascolto… E dall’abituarsi al suono di ciò che, a volte, ci sembra nuovo.

Alessia Latini

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