MILANO – Il fast fashion ha rivoluzionato l’industria dell’abbigliamento, offrendo capi a prezzi accessibili e rispondendo a una domanda sempre crescente di nuove tendenze. Tuttavia, dietro il modello di consumo rapido e a basso costo si nascondono gravi problemi ambientali e sociali. Tra questi, l’uso di sostanze tossiche è diventato un argomento di forte preoccupazione. L’Unione Europea (UE) ha implementato normative rigorose per proteggere i consumatori, ma i problemi legati alla produzione e alla distribuzione di questi prodotti sono spesso globali. In questo contesto, marchi di fast fashion come SHEIN sono stati al centro di numerose polemiche, non solo per le condizioni di lavoro nelle loro catene di produzione, ma anche per la presenza di sostanze chimiche pericolose nei loro capi, specialmente quelli destinati ai bambini.
Il fast fashion si basa sulla rapida produzione di abbigliamento a basso costo, spesso realizzato con materiali sintetici di scarsa qualità. Questo modello ha conseguenze significative sia dal punto di vista ambientale che sociale. Uno degli effetti più allarmanti è l’aumento della quantità di rifiuti tessili non riciclabili, che contribuiscono all’inquinamento di terre e mari. Il problema è particolarmente acuto in paesi come il Kenya e il Ghana, che importano enormi quantità di abiti di seconda mano provenienti dal Nord globale. Questi vestiti, spesso invendibili, vengono smaltiti in discariche o bruciati, rilasciando sostanze tossiche nell’aria, nel suolo e nelle acque, mettendo a rischio la salute delle comunità locali.
Un recente rapporto intitolato “Fast Fashion, Slow Poison: The Toxic Textile Crisis in Ghana” ha evidenziato come abiti di seconda mano, molti dei quali realizzati con materiali sintetici, stiano causando gravi danni ambientali e sanitari. Ogni settimana, circa 15 milioni di capi di abbigliamento usati arrivano al mercato Kantamanto di Accra, e una gran parte viene smaltita in modalità dannose per l’ambiente. Test condotti in alcune aree di Accra hanno rivelato la presenza di sostanze tossiche, tra cui benzene e idrocarburi policiclici aromatici (PAH), entrambi noti per essere cancerogeni. Per affrontare questi problemi, l’Unione Europea ha implementato normative stringenti. Tra queste, il regolamento REACH (Registrazione, Valutazione, Autorizzazione e Restrizione delle Sostanze Chimiche) mira a controllare l’uso di sostanze chimiche pericolose nei prodotti tessili, assicurando che gli abiti venduti in Europa rispettino standard di sicurezza rigorosi.
In particolare, per quanto riguarda l’abbigliamento per bambini, la UE ha introdotto ulteriori misure per prevenire l’esposizione a sostanze tossiche come piombo, ftalati e formaldeide, che possono avere effetti nocivi sulla salute, soprattutto per i più piccoli. Le direttive europee richiedono inoltre una maggiore trasparenza nella catena di approvvigionamento, obbligando i produttori a dichiarare l’uso di sostanze chimiche pericolose e a garantire la sicurezza dei loro prodotti lungo tutto il ciclo di vita, dalla produzione allo smaltimento. Nonostante queste regolamentazioni, alcuni brand di fast fashion continuano a essere coinvolti in controversie legate alla sicurezza dei loro prodotti.
Uno dei casi più noti è quello di SHEIN, un gigante del fast fashion noto per i suoi capi economici e di tendenza. Recenti test indipendenti hanno rivelato la presenza di sostanze tossiche, tra cui il piombo, in alcuni capi di abbigliamento per bambini venduti dal marchio. Queste sostanze, superando i limiti consentiti dalle normative europee, rappresentano un grave rischio per la salute dei più piccoli, esponendoli a potenziali danni cognitivi e disturbi dello sviluppo. Oltre ai problemi legati alla sicurezza dei prodotti, SHEIN è stato anche accusato di sfruttamento dei lavoratori nelle sue fabbriche. Numerosi rapporti hanno denunciato condizioni di lavoro non sicure, salari molto bassi e orari di lavoro eccessivi, mettendo in evidenza come il basso costo dei capi sia spesso ottenuto a discapito dei diritti dei lavoratori.
Il problema dei vestiti tossici non si limita all’Europa. Paesi come il Kenya, che importano enormi quantità di abiti di seconda mano dal Nord globale, affrontano sfide simili a quelle del Ghana. In Kenya, la qualità degli abiti importati è in declino, con un numero crescente di articoli invendibili che finiscono per essere smaltiti in discariche informali come il Dandora Landfill. Qui, la combustione di tessuti sintetici rilascia sostanze chimiche pericolose nell’aria e nelle falde. La sfida del fast fashion non può più essere ignorata. Il modello di consumo rapido e a basso costo ha gravi implicazioni per la salute umana, l’ambiente e i diritti dei lavoratori. Sebbene l’Unione Europea abbia implementato regolamentazioni come il REACH, il problema resta globale. I marchi di fast fashion devono assumersi maggiori responsabilità, garantendo non solo la sicurezza dei prodotti, ma anche condizioni di lavoro dignitose e una produzione più sostenibile. Allo stesso tempo, è cruciale che i paesi in via di sviluppo, ricevano supporto per migliorare le loro infrastrutture di gestione dei rifiuti.
La soluzione non può basarsi esclusivamente sulla regolamentazione europea o sulle azioni isolate di singoli paesi: è necessaria una cooperazione internazionale che promuova trasparenza, sostenibilità e giustizia sociale in tutte le fasi della filiera. Il futuro della moda richiede un cambiamento di mentalità, non solo da parte dei produttori ma anche dei consumatori. Promuovere un consumo più consapevole e responsabile, preferendo qualità alla quantità, sarà essenziale per invertire la rotta. Solo attraverso l’educazione dei consumatori, la collaborazione tra governi, e un impegno concreto da parte delle aziende sarà possibile trasformare un’industria insostenibile in una forza positiva, capace di rispettare l’ambiente e tutelare la salute delle comunità a livello globale.
Ivana Tuzi
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