MILANO – “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, afferma Tancredi, nipote del principe di Salina, nel romanzo storico “Il Gattopardo” (1958) di Giuseppe Tomasi da Lampedusa; da qui il neologismo “gattopardismo” ad indicare questo fenomeno di trasformismo, spesso presente nella storia italiana. Elemento cardine dell’opera, declinato attraverso le azioni dei personaggi, può definirsi la vecchia classe dirigente borbonica che finge di voler abbracciare la causa unitaria del nuovo Regno, mentre in realtà cerca di conservare i propri privilegi e poteri. Alla fine dell’Ottocento gli eventi storici evolvevano rapidamente, le classi dirigenti si trasformavano, ma l’immobilismo sociale continuava a pesare come un macigno carico di ingiustizia, arretratezza e miseria sui contadini meridionali.
Quante analogie col cosiddetto nuovo che, ciclicamente, da decenni avanza e prospetta cambiamenti rivoluzionari, che poi si spengono miseramente in tanti compromessi di comodo. Il dolore e la rassegnazione dipinti sul volto della moglie di Satnam Singh, morto nei giorni scorsi stritolato tra gli ingranaggi di un macchinario, e di tutti gli altri clandestini scesi in piazza nell’Agro pontino per ricordarlo e chiedere il diritto di esistere dignitosamente, sono l’emblema di tutti i “vinti”, gli sconfitti, i “tagliati-fuori” dalla storia di ogni tempo e luogo.
L’etimo del sostantivo clandestino, dall’avverbio latino clam/ di nascosto, racchiude il senso di queste vite-ombra. Hanno lo stesso colore e disperazione del volto di Nedda, bracciante agricola siciliana protagonista del “Bozzetto siciliano” di Giovanni Verga (1874), costretta a lavorare per dieci/dodici ore e per “tre carlini, oltre la minestra”. Non è raro oggi vedere nelle fertili e produttive campagne italiane in un giorno di pioggia, i braccianti cercare riparo sotto i sacchi neri per la raccolta dei rifiuti, con lo sguardo fisso e rassegnato di chi ha ormai scoperto sulla propria pelle che l’eden vagheggiato si è dimostrato un inferno senza speranza. Hanno l’Identica rassegnazione di Nedda, inoperosa e senza retribuzione in un identico giorno di pioggia, che ritiene più giusto che le olive marciscano nel terreno, piuttosto che mangiarne qualcuna e porre fine ai morsi della fame che l’attanagliano, come suggerisce una compagna più scaltra, ed a cui ribatte con fatalismo: “È giusto, perché le ulive non sono nostre! — Ma non sono nemmeno della terra che se le mangia! — La terra è del padrone, to!”.
Il “padrone” di Satnam ha definito “leggerezza” questo morire a causa di un infortunio, in un paese che ha appena coordinato i lavori del G7; non stupisce pertanto che da cinque anni l’azienda Lovato, presso cui Satnam lavorava, fosse indagata per caporalato. Secondo le accuse faceva ricorso a manodopera straniera per pochi euro al giorno, senza ferie né riposi e con orari di lavoro (10/12 ore) superiori a quelli consentiti dalla legge. Gli inquirenti ritengono che diversi imprenditori del Pontino, e non solo, per prassi consolidata assumano braccianti per il numero di giorni necessari a maturare il sussidio di disoccupazione e poi li licenzino. Nel frattempo, le loro prestazioni lavorative continuano con le stesse condizioni di prima, in regime di semischiavitù e percependo solo metà del salario, poiché l’altra parte è riconosciuta dall’Inps.
Dopo la morte di Satnam, Antonello Lovato (su cui già gravavano le accuse di omissione di soccorso, violazione delle disposizioni in materia di lavoro, omicidio colposo) è stato arrestato e gli è stato contestato il reato di omicidio doloso con dolo eventuale. La nota della Procura sottolinea la condotta disumana e specifica che “ove l’indiano, deceduto per la copiosa perdita di sangue, fosse stato tempestivamente soccorso, si sarebbe con ogni probabilità salvato”. Doveroso, oltre ai numeri ed alle statistiche (191 le vittime registrate nel primo trimestre del 2024), ricordare che questi morti “di e sul lavoro” hanno un nome; Satnam Singh, 31 anni, cittadino indiano, uomo invisibile senza diritti, lavorava con sua moglie, Sonja, nelle campagne dell’Agro pontino. Satnam è morto e Sonja è rimasta sola, vittime entrambi della rete illegale del caporalato, come nell’Italia di fine Ottocento.
Eppure, l’incipit dell’articolo primo della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ma il suo dettato viene oltraggiato e negato da questi datori di lavoro senza scrupoli che connotano negativamente il paese e fanno affermare con amarezza a Sonja: “Io sono indiana, l’Italia non è un Paese buono”.
Adele Reale
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