NAPOLI – “La solitudine non è mica una follia, è indispensabile per star bene in compagnia”. Quella che sembra essere una frase contraddittoria cantata da Gaber, a pensarci bene è strutturalmente cruciale, profondamente vera. La coscienza dell’esser soli, vissuta nella consapevolezza che non lo siamo mai, che siamo ricerca continua, desiderio infinito, non può non farci generare l’unica vera domanda: perché cerchiamo? Cosa cerchiamo? Meglio, se cerchiamo è perché costituzionalmente siamo fatti per essere soddisfatti, contenti. Alla ricerca del vero significato del nostro sbattere, di ciò che, solo, può dare spessore al nostro vivere. Non possiamo essere stati messi al mondo per girovagare esistenzialmente alla ricerca del nulla. Non si può!
Ma allora che valore ha l’essere soli? La soddisfazione dell’essere incontrati, dell’essere amati, dell’essere considerati, dell’aver incontrato, genera inesorabilmente la risposta: noi siamo fatti di altro, noi siamo fatti da altro. E la soddisfazione ultima, il superamento della solitudine non può che condurci alla verità e cioè che nulla può soddisfare tale esigenza se non la percezione, la consapevolezza che la struttura del nostro io è di un altro. Siamo lotta perenne tra la solitudine offuscata dell’essere soli e quella nitida della pienezza di ciò che siamo all’origine. La non coscienza di ciò non genera solitudine ma disperazione, affanno, ricerca disperata di un bene/male cui aggrapparsi. Un qualcosa che dia parzialmente soddisfazione, che ci illuda di aver trovato la strada. Infatti «Il senso della solitudine nasce nel cuore stesso di ogni serio impegno con la propria umanità. Può capire bene tutto ciò chi abbia creduto di aver trovato la soluzione di un suo grosso bisogno in qualcosa o in qualcuno: e questo gli sparisce, se ne va, o si rivela incapace» (don Giussani).
Nelle lodi delle trappiste di Vitorchiano riscontriamo ciò che sarà come la nota dominante in ogni passo: «Prima che sorga l’alba, / vegliamo nell’attesa: / tace il creato e canta / nel silenzio il mistero. / Il nostro sguardo cerca / un Volto nella notte». Ma perché cerchiamo un Volto? Per una domanda a cui non sappiamo rispondere. Chi non ha mai sperimentato quel senso di impotenza che emerge dal fondo dell’esperienza? Come non cedere alla paura e alla disperazione? Semplicemente tenendo gli occhi aperti, per vedere se all’orizzonte appare qualche bagliore di vita che ci dica che non siamo soli. Occorre sostenerci per non lasciarci vincere dallo sconforto e per non smettere mai di fare i conti con quell’esigenza che sta al fondo di ogni autentica solitudine. Solo così sarà possibile intercettare una risposta.
«Non sarai più solo, mai». Chi può dire questo? Solo Cristo, per la compagnia profonda che vive con il Padre: «Io non sono solo, perché il Padre è con me». Lui è l’unico che si prende a cuore tutto di noi e risponde al nostro bisogno. Anche Gesù non rassicura i discepoli con un discorso o con delle formule, ma con la Sua stessa presenza, compagnia di Dio all’uomo. Come ci dice papa Francesco, «se Egli vive, […] non ci saranno mai più solitudine e abbandono. Anche se tutti se ne andassero, Egli sarà lì, come ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”». C’è un punto ultimo, al fondo del nostro io, in cui siamo inesorabilmente soli. Perché nulla di ciò che abbiamo davanti, e in cui riponiamo man mano le nostre attese di compimento, riesce a riempirci il cuore. Condizione strutturale, quindi, inevitabile. Ma la solitudine, allora, è una condanna? L’esperienza drammatica che facciamo tutti di uno stato d’animo così acuto da risultare a volte insopportabile è senza vie di uscita? Quanto tempo, energia e soldi se ne vanno per eludere i momenti in cui siamo soli con noi stessi? O quanta paura abbiamo, spesso, del silenzio? Insomma, dobbiamo rassegnarci al fatto che la nostra stessa umanità ci sia nemica, o c’è un’altra possibilità?
Ci viene incontro paradossalmente Nietzsche che sosteneva che l’uomo autentico deve poter assaporare la solitudine, quel Monte degli Ulivi che permette di entrare in contatto con i lati più oscuri e fragili della propria persona. Senza solitudine e silenzio si rimane sempre nella superficie! Allo stesso modo Kierkegaard che sosteneva che timore e tremore sono il segno della scelta individuale, fatta inevitabilmente nella solitudine. Il rimedio è Dio, il resto è silenzio. O anche Heidegger il quale sosteneva che la solitudine rappresenti la condizione dell’autenticità. È la strada che esploriamo sempre. Che la solitudine non sia solo questo, ma uno strumento per conoscere. Noi stessi e la realtà. Anzi, che proprio quel confine ultimo dell’io sia il luogo a cui ancorare in maniera finalmente profonda, consapevole il rapporto con il Mistero. Ecco, è solo mettendo radici nel fondo del nostro io – cioè rispondendo a questa ultima solitudine – che si può iniziare a dare «forma» alla vita. A plasmare la coscienza che abbiamo di noi. E a farci scoprire, in un sussulto di meraviglia, che qualsiasi cosa accada, non siamo mai davvero soli.
Innocenzo Calzone
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